La Lettura, 31 marzo 2019
La prima escape room in Italia
C’è una grande cancellata in corso di Porta Ticinese, a Milano; è anonima, non ha cartelli in vista, solo un citofono, come tanti. Se si osserva meglio, c’è una piccola mappa: è lì che bisogna suonare per entrare nell’agenzia di escape room The Impossible Society, fondata nel 2015 da Maurizio Murciato e Davide Baldi. Insieme con tre giocatori volontari, «la Lettura» ha visitato una «stanza della fuga» che fino al 31 luglio è ispirata all’ambientazione del romanzo giallo di Stuart Turton, Le sette morti di Evelyn Hardcastle (Neri Pozza). Il gioco consiste nel chiudere un gruppo di persone (da 3 a 6) all’interno di questo spazio arredato sul tema del libro; per uscirne, in un tempo prestabilito, bisogna risolvere prove ed enigmi, tutti sequenziali. Già altre escape room hanno tratto ispirazione da romanzi, soprattutto gialli o thriller, come quelli di Stephen King, la saga di Harry Potter, Dracula di Bram Stoker o Il codice da Vinci di Dan Brown (è stato ricreato su un treno-escape room in Finlandia Assassinio sull’Orient Express di Agatha Christie, per 13 ore di gioco). In Italia questa è però la prima volta che una stanza viene realizzata seguendo quasi di pari passo la trama di un romanzo.
Per i ragazzi che abbiamo accompagnato in questa esperienza – tutti già conoscitori di giochi Arg (Alternate Reality Gaming, esperienze di intrattenimento di fiction ambientate nella realtà) – solo due certezze: 60 minuti di tempo e un walkie-talkie per comunicare con l’esterno. Nessun cellulare è ammesso, tutto quello che serve per risolvere gli enigmi e uscire, è nella stanza. Per vincere occorre gioco di squadra, con una difficoltà in più: i ragazzi, tra di loro, non si conoscono e devono costruire un rapporto vincente. Nicola Galperti, trentenne, account aziendale, Enrico Magrì, 41 anni, ingegnere di reti in una compagnia telefonica, ed Erika Santoro, 23 anni, con un impiego nella contabilità di una piccola azienda sono accolti all’ingresso da un maggiordomo, che li introduce nella stanza. E nella storia.
Il locale in cui entreranno (circa 20 metri quadrati) è un mondo parallelo da cui bisogna scappare per tornare alla realtà; è ispirato allo studio della famiglia Hardcastle, che si trova nella residenza Blackheath, e diventa una metafora della tenuta stessa. All’interno ogni enigma è svelato attraverso un pezzo della trama del libro (semplificata), grazie alla scoperta sequenziale di lettere, biglietti, pagine di giornale: tutto inizia a una festa data dai coniugi Hardcastle, durante la quale viene assassinata la figlia Evelyn. Dopo questa morte, il protagonista Aiden Bishop si risveglia ogni giorno, per otto giorni, in un corpo diverso, appartenuto a ospiti o domestici, attraverso cui rivede sempre l’omicidio. Da Blackheath non si può fuggire: l’unico modo che Aiden ha per tornare nel suo corpo e scappare (insieme ad Anna, la sua amante) è svelare al Medico della peste – personaggio sinistro e senza volto – l’assassino di Evelyn. In caso contrario, le reincarnazioni si perpetueranno in un loop temporale senza fine.
L’escape room riflette, in modo ridotto, questa vicenda: ci troviamo nello studio in cui gli otto personaggi di Aiden sono entrati almeno una volta. Cambia il finale: i giocatori non devono scoprire l’assassino di Evelyn, ma capire se Aiden riuscirà a risolvere il mistero di quel luogo (gli enigmi) e a scappare da Blackheath (la stanza). Rispetto al romanzo, sono ridotti anche i personaggi, e manca tutta la narrazione legata alla risoluzione dell’omicidio di Evelyn; inoltre cambiano i nomi dei protagonisti che diventano Benjamin e Rose. Particolari, oggetti ed evocazioni della storia di Turton sono invece utilizzati per ambientare i giochi d’ingegno.
Per i ragazzi, è il momento di entrare: dopo uno sguardo sommario allo studio – c’è una mappa della tenuta, la maschera del Medico della peste che torna in modo ossessivo, bauli chiusi – Enrico, Nicola ed Erika cercano il primo indizio, l’unico fornito dal maggiordomo all’ingresso: «Trovate tre pezzi e posizionateli». La prima cosa che trovano entrando è una lettera che introduce la storia degli Hardcastle. Si ragiona sulla grande mappa, qualcuno la studia. D’istinto, quello che i ragazzi fanno è toccare, aprire, muovere, conoscere i mobili. Enrico ripensa alla frase del maggiordomo, che nella confusione è passata in secondo piano; si guarda intorno: «C’è una scacchiera!». Inizia la caccia alle pedine nascoste, spunta la prima: «La lettera parlava di una partita a scacchi...», si ricorda Nicola; la rileggono. Sulla parete accanto a loro ci sono quadri che riportano i nomi di personaggi del romanzo e le coordinate delle loro partite: la risoluzione diventa intuitiva incrociando le informazioni, ma ora mancano le pedine. Il walkie-talkie annuncia: «Sono passati 10 minuti». Il terzo pezzo è il più difficile da scovare: «Vi basta afferrarlo», suggerisce la voce dal walkie-talkie. Posizionati nel modo corretto gli elementi, si apre un contenitore con dentro uno strano oggetto e una lettera che prosegue il racconto. Entra in scena il Medico della peste, che da quel momento aiuta i giocatori con i suoi suggerimenti (proprio come fa con Aiden nel romanzo). Gli scacchi non sono un espediente casuale; nel libro tornano spesso, ed è proprio una pedina a tenere in contatto i due protagonisti quando la memoria li abbandona nel trapasso dei corpi.
Tra i ragazzi c’è fin da subito un certo equilibrio. Solitamente l’esperienza di escape room si fa tra amici, in un contesto di condivisione. Il fenomeno nasce nel 2008 in Giappone da un’idea di Takao Katoe, che costruisce i primi giochi di fuga in bar e locali; la prima escape room italiana sbuca nel 2015 a Torino. La clientela è varia, anche se il target più alto è quello dei giovani adulti (25-35 anni). Lo conferma anche Murciato, uno dei fondatori di The Impossible Society, prima escape seriale (a episodi) d’Italia: «Da noi passano circa cinquemila persone l’anno, soprattutto tra i 18 e i 35 anni»; qui vengono aziende per fare team building e scolaresche (8-14 anni). Il cliente più anziano è stata una donna: classe 1934.
Nell’escape room il gioco prosegue. La febbre della scoperta porta, a volte, a trascurare la logica. Ormai il gruppo è coeso, i diversi ragionamenti fanno da ponte uno all’altro. Proseguono gli enigmi: coordinate geografiche, operazioni numeriche, simboli da decifrare, oggetti da impiegare (torce, bussole, fotografie). Da fuori, un altro avvertimento: «Vi restano ancora 22 minuti».
A comunicare dal mondo esterno è il game master, la persona che conduce il gioco, che fa entrare nel vivo della storia. Con i ragazzi c’è la voce di Giuseppe Fisicaro, perito in elettronica e comunicazioni che è anche game designer (chi controlla il flusso del gioco, studia la scenografia e ingegnerizza la stanza) di The Impossible Society. «In generale, le trame e gli indizi li inventiamo noi – spiega Fisicaro a “la Lettura” —, con Murciato e Baldi sono l’autore della stanza ispirata al romanzo, ma per la parte tecnologica ci siamo affidati ai programmatori».
«Mancano 14 minuti». Ogni indizio indovinato è un tassello della storia che prosegue; giocando, i ragazzi conoscono il romanzo e i loro obiettivi. A tre minuti dalla fine, cala il silenzio. Con l’apertura dell’ultimo lucchetto, appare la chiave finale: «Si esce, amici!», urla Erika. Il gioco è finito anche se con tre minuti di ritardo (il record dell’agenzia è di 27 minuti e 50 secondi). I ragazzi hanno scoperto se Aiden Bishop è riuscito a risolvere il mistero di Blackheath. Perché sono loro a essere diventati Bishop, uscendo dalla stanza.
Fuori dall’escape, sono tutti divertiti, sono riusciti a fare squadra. Nicola apprezza la trama: «Mi è piaciuta l’idea della storia, l’investimento creativo. Il mistero», racconta a «la Lettura». «Sì, la storia rende la stanza più avvincente – continua Erika – e quest’esperienza ti dà la possibilità di metterti in gioco, di avere un ruolo all’interno del team». È della stessa opinione Enrico: «Quello che apprezzo di più di quest’attività, è il piacere di giocare in gruppo, di fare qualcosa di creativo».