La Lettura, 31 marzo 2019
Confessioni di un eco-razzista
Nove minuti prima che Brenton Tarrant uccidesse cinquanta persone in due moschee di Christchurch, un pdf di 74 pagine intitolato The Great Replacement, La Grande Sostituzione, era stato inviato al primo ministro neozelandese Jacinda Ardern e a una settantina di altri indirizzi.
È inevitabile constatare che si è trattato del più efficace lancio editoriale a oggi. Nel giro di poche ore, The Great Replacement veniva citato e commentato, in rete e sulla stampa, nonché in televisione, in ogni angolo del mondo. Somerset Maugham sosteneva che il lancio di un libro doveva essere valutato misurandolo in centimetri. Il lancio del libretto di Tarrant potrebbe essere valutato in decine di migliaia di centimetri, a distanza di poche ore dall’apparizione del libro. Che è piuttosto un libretto e si presenta come un manifesto. Ma anche il Manifesto comunista di Marx era un libretto, se paragonato con il ponderoso Capitale. E Mao Zedong si era affidato al Libretto rosso per avviare la rivoluzione culturale. Due libretti che hanno fatto molta strada.
Certo, un libretto esige formulazioni stringate, ignora le elaborazioni dettagliate. Tarrant ne ha tenuto conto. Ma anche Tarrant è passato da una fase di autore coscienzioso, che vuole argomentare. Anche lui aveva le sue «opere complete» [19]: erano un manoscritto di circa 240 pagine. Lì, scrive Tarrant, «affrontavo molte questioni in profondità, ma in un momento di sfrenata autocritica ho distrutto l’intera opera e ho cominciato da capo, due settimane prima dell’attentato» [19]. Il libretto che oggi leggiamo è dunque ciò che rimane, in una versione affrettata e febbrile, di una argomentazione più estesa.
Cominciamo dalla copertina, come si fa con un qualsiasi altro libro. Al centro un cerchio diviso in otto spicchi, che convergono in un cerchio più piccolo, solcato da sghembi tratti neri, che ricordano Ordine Nuovo o certe sette nordiche. Ogni spicchio ha un nome. Cominciando dall’alto, in senso orario: anti-imperialismo, ambientalismo, mercati responsabili, comunità senza dipendenze, legge e ordine, autonomia etnica, protezione delle tradizioni e della cultura, diritti del lavoratore . A ciascuno degli spicchi è collegata un’immagine: famiglia modello con tre bambini per la «comunità senza dipendenze»; allegoria della Giustizia con spada e bilancia per «legge e ordine»; madre che legge un libro a tre bambini per «protezione delle tradizioni e della cultura».
Cinque degli otto spicchi corrispondono ad altrettante bandiere di ciò che è stata la sinistra – e ormai, avendo perso ogni nettezza il suo profilo, sarebbe meglio definito come campo progressista. C’è l’ambiente, la difesa dei lavoratori, la lotta contro l’imperialismo, la preoccupazione per la cultura, l’esigenza di regolare i mercati. Tutti punti essenziali.
Quanto a «legge e ordine», anche se l’espressione è da lungo tempo abusata, nessun progressista negherà di approvare legge e ordine. Rimangono due spicchi di interpretazione dubbia. Che cosa possa essere una «comunità senza dipendenze» non è immediatamente chiaro. E ancora più dubbio è lo spicchio «autonomia etnica», illustrato da due mani – bianche – che si stringono. La formula presuppone un accordo, ma non si esplicita su che cosa.
Così si presenta Tarrant, in un’immagine che vuole essere l’emblema di tutto il libro. I sentimenti messi in evidenza sono buoni, benevoli, responsabili. Nella loro quasi totalità sono tali da non suscitare obiezioni da parte di molti benintenzionati.
Eppure, nel corso del libretto, si incontrano inviti non solo a uccidere singole persone, come Angela Merkel [39], ma a sradicare intere comunità, inclusi i bambini, obbedendo alla massima: «Non evitare di bruciare qualsiasi nido di vipere» [53].
Non c’è nulla di nuovo nel libretto di Tarrant. Ma è sorprendente la mistura fra elementi sinora incompatibili o urtanti in ciò che c’è di vecchio. Il titolo non è che la traduzione inglese di un libro del 2011 di Renaud Camus, Le Grand Remplacement. Ma la denuncia della sostituzione etnica è diffusa ovunque, con lievi varianti da lingua a lingua. Con Thilo Sarrazin diventa nel 2018 Die feindliche Übernahme, L’acquisizione ostile (così come si parla di Opa ostile: Sarrazin per anni ha lavorato alla Deutsche Bundesbank).
C’è però anche una assoluta novità in Tarrant: l’amalgama ormai irreversibile fra destra e sinistra, fra progressisti e reazionari. E soprattutto l’accento sulla bontà , sulla disponibilità a sacrificarsi per gli altri e per tutto ciò che è sano nella natura e nella società. Incessanti, nel libretto, sono le dichiarazioni di ossequio verso il passato, unite ad ammonimenti per salvare il futuro. Poi tutto precipita verso l’unico verbo che offra una garanzia inscalfibile di significato: uccidere.
Il dio del caso è l’ultimo dio, che la società secolare non è riuscita a esiliare. E non ci riuscirà mai, perché la società è una enclavenella tessitura del caso – e non l’inverso. Il caso: dio disponibile per essere usato da chiunque e per colpire chiunque.
L’«eco-fascista per natura» [15] – come Tarrant, con lucidità, definisce se stesso – è un ambientalista più rigoroso degli altri. Suggerisce che una adeguata pulizia ambientale dovrebbe essere integrata da una pulizia etnica.
Non è possibile capire Tarrant se non insieme alla sua controparte astrale: Stephen Paddock. Uno in una moschea neozelandese, l’altro dalla finestra di un albergo di Las Vegas, hanno ucciso l’uno cinquanta, l’altro cinquantotto persone. Tarrant ha motivato passo per passo quello che ha fatto. Paddock è riuscito a fare in modo che nessuno sia stato in grado – anche in minima misura – di ricostruire i suoi motivi.
Tarrant ha lasciato un libretto che spiega, giustifica, esalta i suoi motivi. Paddock ha svuotato il suo computer e il suo iPhone con rigore, impedendo che si potesse trovare anche una sola traccia. Di se stesso ha lasciato solo alcuni documenti di amministrazione, quando gestiva un condominio. Al Mandalay Bay Resort è accessibile la registrazione delle sue vincite e perdite al casinò dell’albergo. Come cliente, la categoria assegnata a Paddock era quella dei «lifetime winners», «vincitori per tutta la vita». Nulla di più è stato accertato. Tarrant ha ucciso membri della comunità islamica in quanto «invasori disarmati» [43], che ritiene «di gran lunga più pericolosi per il nostro popolo dell’invasore armato». Paddock ha ucciso membri dell’occasionale comunità di coloro che ascoltavano un concerto rock. Entrambi si sono appellati al dio del caso.
In tutto ciò che si sa della sua vita, Stephen Paddock appare come un modello di razionalità: accorto investitore immobiliare, fa fruttare le sue proprietà senza lasciarsi opprimere dal lavoro, che si limita alla riscossione degli affitti e all’amministrazione quotidiana. Non si fa mai notare dalle autorità, evita di coinvolgersi in conflitti. Non dichiara mai nulla, di nessun genere. Anche nel gioco d’azzardo, bilancia le perdite con le vincite. È un professionista, qualsiasi cosa faccia. Quando progetta il suo attentato, trae vantaggio da tutti i privilegi che il casinò gli concede. L’unica cosa certa che si può dire di lui è che sa ragionare.
Non solo la copertina, anche l’epigrafe di un libro può essere un’indicazione essenziale per capirlo. Il libretto di Tarrant ha in epigrafe una intera poesia di Dylan Thomas, Do not go gentle into that good night, una delle più famose e anche delle più belle. È una poesia di rivolta violenta contro la morte e si chiude con il verso: «Rage, rage against the dying of the light», «Infuria, infuria contro la luce che muore». Era un motivo onnipresente in Thomas. Un’altra sua lirica, ancora più celebre e la prima che volle recitare, si intitola: And death shall have no dominion.
Tarrant pone la poesia di Thomas in testa al suo libretto e lo chiude con un’altra lirica: Invictus di William Ernest Henley. L’ultimo verso dice: «I am the captain of my soul». Quando Oscar Wilde, rinchiuso nel carcere di Reading, citò quel verso in De profundis, lo modificò così: «Non ero più il capitano della mia anima». Ma Tarrant pensava piuttosto a Nelson Mandela, che si recitava quel verso in prigione come era stato scritto. Dopo tutto, non era che un altro partigiano, come lui stesso. Così pensava Tarrant.
Dietro l’ossessione del Great Replacement, della Grande Sostituzione, si profila un evento metafisico di cui i suoi attori nulla sanno né vorrebbero sapere. Il loro nemico apparente è la visione di una massa di invasori. Ma questo potrebbe essere anche soltanto l’aggiornamento di vecchi incubi (il pericolo giallo, i Turchi, ecc.).
Ora invece il vero soggetto è la sostituzione stessa, in quanto polo irriducibile della mente, che diventa dominante nella digitalità. Ciò crea un senso di vertigine e la paura che tutto sfugga alla presa. Ma simultaneamente a un senso di onnipotenza, simboleggiato dalla rete. Si tratterà allora di imitare la sostituzione stessa, nella sua prima modalità di azione: l’uccisione. Quando si dice: a sta per b , si indica l’operazione che rende possibile il linguaggio, ma anche la codifica informatica. E in questa operazione inevitabilmente a prende il posto di b , quindi lo sopprime, sostituendolo. È una operazione esaltante, che può contagiare: allora la sostituzione diventa uccisione e chi la pone in atto è il suo partigiano.
Che la grande sostituzione sia un’ossessione metafisica ben prima che etnica è provato da uno dei film dell’età aurea della fantascienza: L’invasione degli ultracorpi di Don Siegel. Film del 1957, dove si racconta come nella cittadina di Santa Mira – e potenzialmente ovunque – gli abitanti vengano sostituiti da loro copie identiche provenienti dallo spazio. Che si trattasse di bianchi in sostituzione di altri bianchi rendeva il fatto ancor più terrorizzante. Ma, come di regola nei film del genere, al terrore faceva seguito un doveroso e frettoloso lieto fine. Don Siegel non l’avrebbe voluto. Per lui il film doveva concludersi con la battuta: «You’re next», «Ora tocca a te», pronunciata dal protagonista con il dito rivolto verso il pubblico.
La demografia può dare facilmente alla testa. Con le sue cifre che scandiscono il futuro come un orario ferroviario, è l’ultima immagine di Ananke, della Necessità, in un mondo fatto di oscillazioni non dominabili. Tarrant mette le mani avanti: «Anche se deportassimo domani tutti i non-europei dai nostri Paesi, il popolo europeo continuerebbe a seguire una spirale di deterioramento e, alla fine, di morte» [3]. Non c’è bisogno di «invasori» per dissolversi. L’Europa svuotata andrebbe in ogni caso verso una blanda estinzione. Perciò alla fine si scopre che le uccisioni sono inutili: «Anche se tutti gli invasori vengono deportati domani e tutti i traditori vengono liquidati come veramente meritano, comunque continueremo a vivere di tempo preso in prestito» [58].
Quella che oggi viene chiamata questione dei migranti non è che uno spicchio della questione dello straniero. E la questione dello straniero a sua volta è uno spicchio della questione dell’ignoto. Strano, straniero o fremd , Fremde o strange , stranger o étrange ,étranger : le lingue vicine convergono nel riconoscere questo rapporto. Che è inevitabilmente drammatico, teso, avventuroso. E tutto si decide a seconda del modo con cui ci si avvicina all’ignoto – se prevale la reverenza o la paura, l’attrazione o la repulsione. In ogni singolo caso si ricompone l’ambivalenza fra hospes e hostis, «ospite» e «nemico»: parole affini e divergenti, sin dalle loro remote origini. Sapiens stesso apparve in Europa come straniero, sovrapponendosi ai Neanderthal in una convivenza di cui poco di certo sappiamo.
«Stavo viaggiando come turista in Europa a quel tempo, Francia, Spagna, Portogallo» [7] scrive Tarrant. Era l’aprile del 2017. Fu allora che si cristallizzò in lui la determinazione di uccidere, attraverso tre momenti. E qui Tarrant diventa narratore.
Il primo caso è la notizia della morte di Ebba Akerlund. Undicenne, sordastra, sta tornando a casa dopo la scuola, a Stoccolma, e non si accorge di un tir guidato da un attentatore islamico che sta per travolgerla. È la vittima perfetta, più inerme degli altri inermi. La sua uccisione, scrive Tarrant, «sfracellò il mio indifferente cinismo come una mazza» [7]. Capì allora che quegli attentati erano attacchi alla sua «anima» [8]. E a questo punto Tarrant diventa un turista-narratore, che fissa lo sguardo su scene indelebili. «Ricordo di essermi fermato nel parcheggio di un centro commerciale di una città francese media dell’est, con circa 15-25 mila abitanti. Mentre stavo nel parcheggio, seduto nella mia macchina noleggiata, ho osservato il flusso degli invasori che entrava nel centro commerciale. A ogni uomo o donna francese corrispondeva un numero doppio di invasori». La scena è plausibile e ripetitiva. Tarrant si allontana, fumante di rabbia. E, senza averlo cercato, si imbatte in un vasto cimitero di guerra: «Semplici croci bianche, di legno, spuntavano dai campi di lato alla strada, apparentemente senza fine, sino all’orizzonte. Erano innumerevoli e insondabile l’immagine della loro perdita. Fermai la mia macchina noleggiata e rimasi a fissare quelle croci e a contemplare come poteva essere accaduto che, nonostante il sacrificio di questi uomini e di queste donne, nonostante il loro coraggio, eravamo caduti sino a quel punto. Scoppiai in lacrime, singhiozzando da solo nella macchina, fissando le croci, i morti dimenticati» [9]. Quei morti non erano stati uccisi da invasori, ma erano europei che si erano massacrati fra loro. Non fu questo però il primo pensiero di Tarrant. Al contrario si disse: «Perché stavamo permettendo agli invasori di conquistarci?» [9]. C’era un non sequitur. Ma Tarrant non vi si soffermò. Era il momento di chiedersi: «PERCHÉ NON FACCIO QUALCOSA?» [9]. E quel qualcosa significava «assumersi la lotta contro gli invasori» [9]. Era l’ultima fase della cristallizzazione.
Non si diventa «eco-fascista» tutto d’un colpo. Tarrant è, come sempre, scrupoloso nel suo rendiconto: «Da giovane ero comunista, poi anarchico e finalmente libertario prima di diventare un eco-fascista» [17]. Si direbbe un compendio della scena politica nel secolo ventesimo. Manca solo un elemento: il liberalismo. Ma Tarrant lo ha già condannato con un aggettivo che predilige: «milquetoast», «moscio» – una pura facciata per le corporations, le imprese che tengono in mano il gioco. «La democrazia è governo della malavita, mob rule, e la malavita stessa è governata dai nostri nemici» [59], quegli invisibili che stanno sempre dietro a tutto.
E gli ebrei? «Un ebreo che vive in Israele non è mio nemico, fintantoché non cerca di sovvertire o danneggiare la mia gente» [15]. Ma gli ebrei non stanno tutti in Israele. Molti fanno parte di ciò che Tarrant chiama «la mia gente». O forse non ne fanno parte, per definizione? Su questo punto Tarrant tace.
L’idea della sostituzione etnica è un fantasma paranoico che, al pari di qualsiasi altro fantasma paranoico, ha un qualche fondamento. Ciò che lo rende disturbante e accecante è un oscuro snodo che a un tratto immette il fantasma nella fattualità. I fantasmi diventano corpi, talvolta da colpire. Se riferito alla società, questo impedisce al soggetto di fare un passo di lato rispetto alla società stessa. Passo salutare, che dovrebbe essere implicito nell’economia psichica. Chi non riesce a compierlo è costretto a vedere se stesso come una pura componente dell’aggregato sociale – e nulla di più. Così rendendosi impossibile osservare il flusso della vita, separandosi dalla società. Questa situazione implica una sorta di generale ottundimento, che può facilmente sfociare in violenza. È il morbo peculiare di un’epoca dove la società stessa ha preso il sopravvento su ogni altra potenza. Così può anche accadere che un giovane personal trainer australiano possa addossarsi la missione di salvare la razza bianca, pur considerando la sua esecuzione come un’opera che è «fine a se stessa» [13], compiuta in piena coscienza della sua inefficacia, anche se pensando che «la lotta è cosa bella in sé» [73].
Tarrant si presenta come un «uomo bianco qualunque, di 28 anni... Nato in Australia in una famiglia della classe operaia, con basso reddito». [5]. Segue un’«infanzia regolare». Regular è parola che piace a Tarrant – e la usa per compendiare se stesso: «Sono soltanto un uomo bianco regolare, di una famiglia regolare» [5].
Ma che cosa ha letto Tarrant? Come si è educato? Non attraverso l’università: «Non sono andato all’università perché non avevo grande interesse per una qualsiasi delle cose che nelle università si danno da studiare» [5]. Ma nelle università si offre da studiare più o meno tutto. Come si è formato allora quel senso di ferma convinzione e di certo sapere che Tarrant subito ostenta? Domanda ingenua che Tarrant finge gli venga posta: «Da dove hai ricavato/ricercato/sviluppato le tue convinzioni?» [17]. Risposta: «Da internet, ovviamente. Non troverete la verità in nessun altro luogo» [17]. Parole improvvisamente oracolari. Internet è non solo luogo della verità, ma il suo unico luogo.
È forse questa la «Grande Sostituzione» che sta avvenendo. Per qualche milione di anni il sapere si è accumulato, si è diramato in una pluralità di linee – e ora di colpo, da tre decenni, è confluito in una sola parola: internet. E internet non tanto riproduce il sapere del passato quanto ne prende il posto, in definitiva sopprimendolo. L’accesso alla «verità» – non solo alla conoscenza – è sbarrato, se non attraverso internet. È questa la frase più terrorizzante di Tarrant, che per il resto abbonda in esortazioni a uccidere. La sua dichiarata devozione verso il passato va insieme alla negazione del possibile uso del passato stesso nelle sue forme specifiche: libro, immagine, suono. Lì non può esserci «verità». Eppure Tarrant ammonisce: «Venerate gli antenati» [41].
«Individualismo edonista, nichilistico» [4]; «follia nichilista, edonista, individualistica» [6]; «nichilismo rampante, consumismo e individualismo» [34]. Parole che si attraggono fra loro come limatura di ferro. Si trasmettono a cardinali, a editorialisti, a convegnisti. È sempre invitante attaccare il nichilismo, perché nessuno sa bene che cosa sia. Ancora meglio se si tratta di nichilismo «edonista». L’impulso nasce da una profonda avversione per la società secolare nella sua forma che potrebbe anche essere la più attraente: non pilotata, molteplice, flessibile, estrosa. Risultato di una lunga, aggrovigliata storia. Alla cui fine si può trovare anche Oscar Wilde. Qui non si tratta più di migranti. Tarrant vorrebbe sparare nel mucchio, fra i bianchi.
Tarrant è o potrebbe essere anche cristiano. Chiede a se stesso: «Eri/sei un cristiano?» [15]. E risponde, inusualmente perplesso: «È una cosa complicata. Quando lo saprò, ve lo dirò». [15]. Un solo punto è certo: si dovrebbe essere cristiani come Urbano II: «Domandatevi, che cosa farebbe il Papa Urbano II?» [26]. Ovviamente una Crociata.
Che cosa manca totalmente al tetro pathos di Tarrant? Appunto ciò che pretende di tutelare e rivendicare: la cultura, il passato. È come se fosse rescisso da tutto questo: sono nomi fluttuanti su uno schermo. Si guarda intorno e pensa che sia una cosa normale. Regular, direbbe.
Anche Anders Breivik, supremo modello per Tarrant, aveva concepito il suo attentato come «lancio editoriale». Anche lui aveva scritto un libro e voleva essere letto – voleva costringere il mondo a leggerlo. Il suo libro constava di circa 1.500 pagine, traboccanti di citazioni e blocchi di testi presi dalla rete. Aveva scelto la via del romanzo-fiume, mentre Tarrant aveva preferito quella del pamphlet. Ma l’impulso era lo stesso: farsi leggere. E la forma migliore di pubblicità a questo fine è una sola: uccidere.
Nel suo accorato discorso del 19 marzo al parlamento neozelandese il primo ministro Jacinda Ardern ha detto che non pronuncerà mai più il nome di Tarrant: «Non mi sentirete mai pronunciare il suo nome. È un terrorista. È un criminale. È un estremista. Ma quando parlo sarà senza nome». Nobile proposito, vasta illusione.
Se Mein Kampf, a suo tempo, fosse stato letto da molti fra coloro che ne hanno subito le conseguenze e il nome di Hitler fosse stato ancor più spesso pronunciato, sarebbe stato più difficile cadere nella trappola di un qualsiasi appeasement, dove invece tanti europei caddero. Inoltre astenersi dal pronunciare il nome di terroristi, criminali e estremisti renderebbe la vita pubblica impraticabile. Ben più efficace sarebbe il silenzio della Trappa.
Ma c’è un punto nel discorso di Jacinda Ardern che invece tocca un nervo scoperto, là dove parla di internet e dei social media e scrive: «Non possiamo semplicemente rilassarci e accettare che queste piattaforme restino così e che ciò che viene scritto su di esse non sia responsabilità del supporto su cui sono scritte. Loro sono l’editore». Quest’ultima è la frase decisiva: l’editore non pesa meno dell’autore. Anzi potenzialmente di più, se l’editore diffonde i suoi prodotti nel luogo che – secondo Tarrant e le legioni dei suoi affini – è il luogo geometrico della verità: internet.