il Fatto Quotidiano, 30 marzo 2019
Intervista a Fabrizio Barca
“È il momento di proposte radicali, che affrontano la radice delle disuguaglianze e redistribuiscono potere. Non basta redistribuire le risorse a valle”. Fabrizio Barca, economista, ex ministro della Coesione territoriale, ora membro della Fondazione Basso, è uno dei promotori del Forum Disuguaglianze Diversità che nei giorni scorsi, dopo oltre un anno di lavoro, ha presentato “15 proposte per la giustizia sociale”. Non il solito rapporto di esperti, ma l’esito di un lungo percorso che ha coinvolto organizzazioni come Caritas e Cittadinanzattiva, Legambiente, Uisp. Dietro queste idee così drastiche, insomma, c’è un pezzo consistente di società civile. Per questo Pd e Movimento 5 Stelle (ma anche Lega e Fratelli d’Italia) stanno seguendo con interesse il dibattito che hanno innescato. In particolare è sensibile il nuovo segretario del Pd, Nicola Zingaretti, che da anni stima Barca.
Fabrizio Barca, perché la disuguaglianze è dannosa?
Perché è ingiusta. Quando raggiunge le forme e i livelli che ha oggi, disgrega la società perché autorizza qualunque comportamento individuale: posso fare qualsiasi cosa perché altri hanno fatto peggio di me.
Di solito si dice: prima aumentiamo la torta poi pensiamo alle dimensioni delle fette. Voi proponete invece di cambiare il processo in cui si accumula ricchezza.
E in quel processo bisogna dare potere a chi non ce l’ha: se le donne sono solo il 15 per cento dei team che scrivono gli algoritmi, a me non sta bene, non basta un codice etico. La responsabilità sociale dell’impresa è irrilevante se i cittadini del territorio non hanno voce. Se all’Ilva ci fosse stato dall’inizio un consiglio del lavoro dove siedono lavoratori e cittadini, avremmo avuto gli stessi problemi oggi a Taranto?
Cos’è il “modello Ginevra” che auspicate?
L’espressione viene da un paper di Francesco Giffoni e Massimo Florio: in Europa abbiamo mille infrastrutture di ricerca pubblica, che gestiscono miliardi, con grande autonomia. Il loro successo dimostra che le imprese pubbliche possono produrre risultati straordinari senza avere il profitto come obiettivo. Ma producono open science, cui tutti possono attingere, ma soltanto grandi imprese che hanno fatto enormi investimenti possono sfruttarlo. Dobbiamo redistribuire quel potere che consente a Mark Zuckerberg di non presentarsi in Parlamento quando uno Stato indaga su Facebook. Costruiamo degli hub di ricerca pubblico-privati, con regia pubblica, che facciano anche la parte a valle della ricerca, fino alla commercializzazione.
Serve una Facebook pubblica?
Invece di stroncare i privati con la regolazione, lo Stato può competere con loro. Lo aveva capito Enrico Mattei che con l’Eni sfidò le sette sorelle del petrolio. Oggi ci sono le sette sorelle del digitale.
Lo Stato deve riprendere anche il controllo dei dati dei cittadini?
Abbiamo bisogno che nei luoghi in cui si concentra l’utilizzo degli algoritmi, le città, vengano costruite piattaforme collettive non private dove i cittadini riversano i dati avendo voce in capitolo su come vengono usati. Se i dati sulla nostra mobilità vengono regalati alla singola impresa che vince la gara, questa sceglierà percorsi che massimizzano il profitto a comportamenti invariati e con quei dati diverrà monopolista: se c’è poco traffico dalle periferie, l’algoritmo reagirà riducendo le corse dei mezzi pubblici verso la periferia. E i problemi peggioreranno. Se prendo gli stessi dati e li metto a disposizione di tutti, piccole imprese creative possono elaborare idee tra loro in concorrenza che tengono conto delle proposte dei cittadini e secondo una strategia collettiva e monitorabile. Non è un’utopia, sta già accadendo a Barcellona. Anche Milano e Bologna vanno in quella direzione.
Un partito può permettersi di proporre nuove tasse come quella che auspicate sulle successioni?
Oggi pagano la tassa di successione circa 108.000 persone l’anno. Con lo schema che proponiamo noi, nella ipotesi più alta la pagano soltanto 30.000. Si toglierebbe qualunque tassa al ceto medio. La franchigia altissima e la rapida ascesa delle aliquote garantiscono quattro volte più gettito pesando soltanto sul 25 per cento dei contribuenti attuali. Se non si rivalutano i cespiti patrimoniali il gettito raddoppia, invece di quadruplicare.
Politicamente è fattibile?
Certo, perché quelle risorse verrebbero usate per finanziare l’“eredità universale”, cioè 15.000 euro da assegnare a ogni cittadino che compie 18 anni. Avremmo da una parte 590.000 giovani beneficiari l’anno, 70.000 persone che non pagherebbero più la tassa di successione e circa 10.000 persone che invece dovrebbero pagare più tasse. Dal punto di vista politico dovrebbe essere ovvio cosa fare.
Già per il più modesto bonus 18enni si è obiettato che è troppo per qualcuno, troppo poco per altri. E voi volete dare 15.000 euro a ogni 18enne?
15.000 euro sono tanti, possono fare la differenza. Devono andare a tutti perché anche molti ragazzi benestanti si trovano condizionati da una famiglia che prende decisioni per loro. La necessità della libertà c’è per chiunque. È evidente che ci sarà qualcuno che la userà male. Ma le esperienze che ci sono nel mondo suggeriscono che sono pochissimi quelli che sprecano davvero l’“eredità universale”. Lasciare piena libertà di utilizzo dei soldi non significa però abbandonare i ragazzi a loro stessi.
Anche il reddito di cittadinanza è partito universale e incondizionato e alla fine i beneficiari devono rispettare tanti paletti.
C’è una differenza radicale: l’eredità universale è una volta sola nella vita e per tutti, quindi molto più semplice da gestire e responsabilizzante per chi la riceve. L’Alleanza contro la povertà ha imposto il principio che al povero devi dare risorse anche per rimetterlo in condizione di proporsi, di fare progetti. Aver portato l’aiuto a un livello dignitoso è fondamentale. I Cinque Stelle ci hanno messo i soldi, ma sono caduti nella trappola del divano: si sono fatti prendere dall’ansia dei paletti e dall’idea che il reddito di cittadinanza dovrebbe creare lavoro, cosa che può fare solo in modo indiretto.
Si è diffusa però una diffidenza per trasferimenti universali e senza condizioni, anche se a favore dei più deboli.
Negli anni Sessanta, davanti a un povero ci si chiedeva “quale contesto lo ha ridotto così?”. Oggi la prima reazione è “che cosa ha combinato per ridursi così”. È un cambiamento di senso comune frutto di 30 anni di cultura neoliberista. Uno dei nostri obiettivi è cambiare il senso comune.