Tuttolibri, 30 marzo 2019
Friedrich Glauser tra droga e Legione Straniera
Furono almeno quattro i tentativi posti in atto da Friedrich Glauser per porre fine, una volta per tutte, alla propria vita. Il primo a 17 anni, quando è convittore del collegio Glarisegg, a Steckborn. Il collegio è ospitato in un imponente edificio, elegante e squadrato, posto sopra una collina a ridosso del lago di Costanza. Nelle acque del lago gli allievi, il pomeriggio, terminato il lavoro nei campi, fanno il bagno obbligatoriamente nudi. Le attività legate all’agricoltura e gli esercizi fisici all’aria aperta sono i cardini su cui si basa l’insegnamento al collegio di Glarisegg, altrimenti detto: Scuola Rurale Svizzera, il cui obiettivo dichiarato è formare buoni cittadini attraverso: «una vita sana, vale a dire a contatto della natura e retta dalla ragione» (secondo Glauser il vero scopo era, in realtà, quello di fornire una sistemazione «ai figli disadattati della classe media benestante»). Friedrich ha perso la madre giovanissimo. Con il padre il rapporto è difficile, destinato via via a inasprirsi, a diventare conflittuale. Espulso da Glarisegg, inizia a frequentare il College Calvin di Ginevra e a pubblicare, sotto pseudonimi quali Frédéric Glosère o Pointe-Sèche i primi testi letterari. Dal Calvin viene allontanato alla vigilia dell’esame di maturità, per aver infierito, dalle pagine di una rivista, sul libro di poesie di un’insegnante.
La dipendenza dalla morfina, di cui ha cominciato a fare uso, lo trascina tempo qualche mese in un’esistenza da incubo, nella quale le detenzioni in carcere, a causa di piccoli furti o per aver falsificato qualche ricetta medica, si alternano a lunghi periodi di reclusione negli ospedali psichiatrici di Ginevra, Zurigo e Münsingen. Nell’istituto Bel-Air di Ginevra gli viene diagnosticata una forma grave di schizofrenia o, come si diceva all’epoca, di dementia praecox. A Münsingen conosce Berthe Bendel, un’infermiera che per lui lascerà l’impiego e che gli starà accanto sino alla morte, che avverrà in Italia, a Nervi, il giorno prima del loro matrimonio.
Una vita, quella di Glauser, in cui l’unico rifugio, la sola misura difensiva, sembra essere la scrittura, e che per il resto è segnata da un’inestinguibile inquietudine, da una febbrile vocazione alla fuga che lo porterà, oltre che a girovagare per mezza Europa, anche in Marocco ed Algeria, nelle file della Legione Straniera. Il riconoscimento letterario arriva con la pubblicazione del primo romanzo in cui protagonista è il sergente Jakob Studer della Polizia Cantonale di Berna. Un personaggio che un po’ allude al Maigret di Simenon (specie nella comune propensione a comprendere il colpevole più che a giudicarlo) e un po’ anticipa l’ispettore Barlach di Dürrenmatt, e nelle cui vicende la dimensione autobiografica è spesso presente. Com’è del resto ricorrente in tutta l’opera di Glauser (sette romanzi e circa 150 racconti), e di cui Dada, Ascona e altri ricordi, pubblicato dalle Edizioni Casagrande, nella traduzione di Gabriella de’ Grandi e con una postfazione di Christa Baumberger, è uno degli esempi più pertinenti, oltre a rappresentare uno dei risultati più godibili. Il libro copre l’arco temporale che va dal 1910 al 1925. Con tono disincantato e leggero, a dispetto degli avvenimenti talvolta dolorosi che rievoca, con quello stile lucido, incisivo, senza compiacimenti che i lettori dei suoi «gialli» conoscono, Glauser descrive gli anni del collegio, quelli della Legione Straniera, i vagabondaggi per Francia, Belgio, Svizzera. Sempre in lotta con «l’inspiegabile necessità di quel veleno», la morfina, che con «subdola delicatezza» allunga le sue «braccia invisibili».
A Zurigo fa conoscenza con Tristan Tzara e Hugo Ball, che al numero 1 di Spiegelgasse hanno da poco creato il Cabaret Voltaire, primo nucleo del movimento Dada. Ball gli appare come «un tranquillo fratello maggiore», gli altri dadaisti li sente come degli estranei. Si stupisce di quanto siano, nonostante la guerra, «sorprendentemente allegri», e avverte la spiacevole sensazione che tutto ciò che gli piace venga invece da loro giudicato: «kitsch sentimentale». Da testimone diretto Glauser ci propone tra l’altro una spiegazione, una delle tante, sull’origine del termine Dada. Il tutto è da far risalire, racconta, al giorno in cui Tristan Tzara, dovendo simulare davanti alla commissione medica quello stato di disagio e confusione mentale che gli avrebbe evitato l’arruolamento (e che uno psichiatra zurighese gli aveva, peraltro, sottolinea Glauser, già diagnosticato dopo averne letto le poesie) si era rinchiuso in un lungo, ostinato silenzio, che aveva infine rotto solo per pronunciare le sillabe: «da...da...da...da…».
Quando, nel 1919, arriva ad Ascona, in fuga dall’ennesimo ricovero in manicomio, Glauser entra in contatto con la comunità dei monteveritani, stringendo rapporti e amicizie con alcuni di coloro che all’inizio del Novecento avevano fatto di quella collina del Canton Ticino, come è stato detto, «il paese di tutte le Utopie, il recesso di tutte le originalità, di tutte le fantasie religiose e di tutti i sistemi di vita alternativi». Al momento di fare un bilancio ammette però che la cosa più importante che ha imparato in quel luogo è «non sopravvalutare troppo i prodotti della mente». In Belgio, a Charleroi, si guadagna da vivere in una miniera di carbone, dove spala detriti, supino dentro gallerie alte non più di 60 centimetri. A Parigi fa il lavapiatti in un albergo nei pressi dell’Opéra e dorme nei ricoveri pubblici. Nelle ore di libertà passeggia lungo la Senna, siede sulle panchine del Jardin du Luxembourg, oppure «rovista» negli scaffali delle piccole librerie, «felice», scrive, della sua solitudine. Evocando il periodo trascorso nella «rocciosa valle africana», vale a dire nella Legione Straniera, le parole di Glauser hanno un accento quasi nostalgico. La legione «non è né cattiva né buona», dice. Fornisce pasti, abiti, una paga, sottrae dalle responsabilità e soprattutto «promette una nuova vita su questa terra».