La Stampa, 30 marzo 2019
Intervista a Carmen Maura
L’unica volta in cui è apparsa davvero sull’orlo di una crisi di nervi è stata nello scorso dicembre, quando ha ricevuto, a Siviglia, il premio alla carriera dell’European Film Academy. In un mare di lacrime, passando dal francese allo spagnolo, con brevi incursioni in un inglese che quella sera le veniva malissimo («vi assicuro, in genere lo parlo meglio»), Carmen Maura è comunque riuscita a dire la sua verità: «Recitare per me è naturale, fin da quando ero bambina». I registi più bravi del mondo, non solo Pedro Almodovar, lo hanno capito prestissimo, regalandole, in cambio di quell’innato talento, una carriera scintillante, ma anche pagata a carissimo prezzo.
Come ha iniziato?
«Sono stata molto fortunata, ho cominciato da ragazzina, a scuola, proprio come se si trattasse di un gioco, non ho mai frequentato una scuola di recitazione, la mia palestra sono stati il cabaret, il caffè teatro, e poi i corti. D’altra parte, quando ho scelto di fare questo mestiere, era già tardi, avevo 25 anni, e non potevo certo mettermi a studiare. Le difficoltà erano altre».
Cioè?
«In Spagna, nell’epoca in cui sono cresciuta, una ragazza che voleva fare l’attrice era considerata più o meno come una prostituta. Non è come adesso, oggi se una dice ai suoi genitori che vuole recitare, li fa solo contenti. Per me è stato tutto complicato. Avevo 16 anni quando mio padre, dopo aver assistito alla mia prima recita scolastica, mi disse che mai e poi mai sarei salita di nuovo su un palcoscenico. Commise un errore, è stata proprio quella frase a farmi decidere di andare avanti».
Non ha mai avuto rimpianti?
«È difficile dirlo. Se vedessi in un film tutto quello che ho passato, forse potrei anche cambiare opinione su quella che, allora, fu una scelta molto istintiva. Ho avuto una vita complicata, e, per via di questo mestiere, mi sono stati tolti i figli. Però, se dovessi pensare a un’altra professione adatta a me, non me ne verrebbe in mente nessuna oltre questa».
Dal teatro è passata al cinema, che le ha dato la fama mondiale. Come è andata?
«Ai miei tempi non era un passaggio semplice. Non avevo le caratteristiche richieste, non ero bellissima, né biondissima, né super-sexy, eppure sono stata fortunata, i miei desideri si sono realizzati prima che arrivassi ad esprimerli. È successo tutto grazie a un corto, quando ho incontrato per la prima volta la macchina da presa, ed è scattato il grande amore».
Sembra che sia stata ricambiata. Come lo ha capito?
«È come quando vai a una festa e c’è un ragazzo che ti piace. Ti comporti come se non esistesse, ma, in realtà, fai di tutto perché lui ti noti. È esattamente quello che io ho fatto con la macchina da presa, se riesci ad attrarla sei a cavallo, perché, per un’attrice, il suo occhio è tutto. L’ho capito dopo aver girato Che cosa ho fatto io per meritare questo?, ero combinata in un modo orribile, e il New York Times mi definì “the sexy housewife”. Allora ho capito che non avrei mai più dovuto preoccuparmi del mio aspetto fisico e che la macchina da presa fa davvero miracoli».
Era il suo secondo film con Pedro Almodovar. Su cosa si basa il vostro rapporto?
«Io e Pedro ci siamo sempre dati molto, vicendevolmente. E non so se, senza Pedro, la mia carriera sarebbe stata la stessa. Veniamo da famiglie ed educazioni differenti, lui molto moderno, io molto antica, ma, per esempio, abbiamo sempre avuto lo stesso senso dell’umorismo. Ridiamo delle stesse cose e, spesso, gli altri non capiscono perché ci divertano tanto. Di recente è stato girato un documentario su di me, cosa che mi ha molto imbarazzato, sono stati intervistati tanti registi, e Pedro ha detto cose bellissime, soprattutto che sono stata io a scoprirlo e a capire, per prima, che lui è un genio».
Avete avuto anche periodi di lontananze e incomprensioni. Che cosa è accaduto?
«Quando Pedro mi ha voluta per Volver era da 20 anni che non ci vedevamo, che non avevamo neanche bevuto un caffè insieme. Eppure sul set, il primo giorno di riprese, ci siamo guardati un attimo negli occhi e ci siamo capiti, era scattata la chimica che ci ha sempre uniti. L’intesa professionale era identica, ma l’amicizia no, quella non c’era più».
I suoi ruoli, la sua personalità, l’hanno resa simbolo di una femminilità libera e combattiva. Che cosa pensa di movimenti come MeToo e Time’s up?
«A dire la verità sono seccatissima, non ne posso proprio più. Il problema esiste ed è grande, ma quando si denuncia qualcuno bisogna ricordare sempre che il primo effetto è distruggerne la carriera per sempre. In Spagna sappiamo tutti che con Weinstein certe cose succedevano, non è una novità. E non è il primo che si è comportato in quel modo. Quando ho cominciato c’era sempre un sacco di gente che cercava di mettermi le mani dappertutto. È giusto che le donne si difendano e prendano coscienza, ma cerchiamo di non mettere gli uomini nella condizione di aver paura di dirci che siamo carine».