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«Si possono fare profitti mantenendo un giusto rapporto con le persone e con il Creato. E si possono remunerare i dipendenti un po’ meglio rinunciando a una piccola parte dei profitti. Vorrei un’Italia dove i lavoratori che stanno ai livelli più bassi avessero uno stipendio più alto del 15-20%; una via di mezzo fra le nostre retribuzioni attuali e quelli dei tedeschi». Tre metri di scrivania total white e di fronte vista spettacolare sulle colline umbre attorno al borgo di Solomeo; dietro la scrivania Brunello Cucinelli, fama di imprenditore umanista, anima e nome dietro il marchio di abbigliamento di lusso che fa oltre mezzo miliardo di fatturato all’anno, l’85% fuori dall’Italia, il grosso degli acquirenti in Asia e Usa.
In due ore di conversazione torrenziale, tra un foglio e l’altro dove i concetti diventano schizzi a matita, si materializzano – elenco non esaustivo né in ordine di apparizione – Goethe, Einstein, Obama, Jeff Bezos, Voltaire, «mio nonno socialista», Pericle, San Francesco, il babbo contadino di 96 anni «con cui da ragazzino portavo l’aratro», Adriano, Marc’Aurelio, Rousseau e un meno noto saggio locale «che mi ha spiegato che un taglio di capelli costa quanto un quintale di patate, 18 euro. Ma ha idea di quanto lavoro ci vuole per fare un quintale di patate?».
Partiamo dal lavoro, per l’appunto. Che cosa dovrebbe fare l’Italia?
«Internet ha cambiato la geografia del lavoro. Chi è nelle produzioni di fascia bassa non può più mantenere certe lavorazioni nel mondo occidentale. E per questo l’Italia ha perso punti di occupazione negli ultimi anni. Pensi solo a un settore come il nostro: la "moda pronta" è stata inventata a Prato e a Carpi, ma adesso non si fa più là, ma dove la manodopera costa meno. È impensabile che un Paese come il nostro, la seconda manifattura in Europa, ma la prima nel mondo se si considerano appunto le produzioni più raffinate, abbia tassi di disoccupazione come quelli che vediamo, specialmente al Sud».
Ma come si recuperano i posti perduti?
«Puntando appunto su produzioni di fascia alta e medio alta e spingendo su quelle qualità del Made in Italy che tutto il mondo vuole. Pensa che un indiano o un cinese vogliano comprare prodotti italiani di fascia bassa o preferiscano invece quelli di fascia alta, con una qualità eccellente e lavoratori pagati in modo appropriato?».
Facile da dire per chi fa il cashemere...
«Non parlo solo del lusso, ma di tutti i prodotti e tutti i settori dalla moda, alla siderurgia, all’alimentare - dove capacità e lavorazioni possono fare la differenza. Ma proprio per aiutare la creatività e l’artigianalità italiane bisogna fare certe piccole cose che aiutano chi lavora, come remunerare meglio le persone, riposare all’ora di pranzo, staccare dal lavoro a un’ora civile. Sono cose importanti perché ci legano al nostro modo di essere e al nostro territorio e alla fine costano poco».
È la filosofia di Solomeo applicata su scala nazionale Potrebbe mai funzionare?
«Quando è nata l’azienda volevo fare un made in Italy vero, produrlo in Italia arrecando meno danni possibile all’umanità e pensando che nel mondo ci sia qualcuno che voglia comprare un prodotto che rappresenta la nostra cultura, la nostra storia e artigianalità, il nostro stile di vita. Oggi abbiamo 1.800 persone e mille lavorano qui a Solomeo: chi fa un lavoro in cui si usano le mani riceve un 20% in più proprio perché bisogna premiare l’artigianalità. Anche i sedici ragazzi e ragazze che sono qui a riordinare - non a fare le pulizie, a riordinare - hanno la stessa maggiorazione. In questo modo si dà valore e dignità a quello che fanno. Lo scorso anno abbiamo avuto 76 mila domande per lavorare qui, abbiamo due persone impiegate solo per rispondere a chi ci manda il curriculum, anche se io preferisco chi lo porta a mano».
Voi siete anche quotati in Borsa. Come si concilia la vostra filosofia con la necessità di portare risultati migliori ogni trimestre?
«Quando ci siamo quotati, nel 2012, il settore dell’abbigliamento cresceva del 22% annuo. Le banche volevano che noi facessimo progetti con una crescita del 20-25% l’anno. Ma per me non c’era nessuna possibilità, volevo e voglio che la mia impresa restasse per cento anni. Dissi che mi quotavo solo a condizione che si accettasse un programma di crescita del 10% l’anno, quella che definimmo allora la "crescita garbata", e poi portai qui gli investitori in modo che vedessero come lavoravamo e vivevamo e giudicassero se comprare le nostre azioni. Sono passati sette anni, abbiamo raddoppiato il fatturato con una crescita media dell’11% l’anno. Secondo noi abbiamo il giusto profitto, cioè facciamo utili ma senza recar danni all’umanità».
Una sorta di decrescita felice?
«Assolutamente no, la parola decrescita non mi piace. Sono per una crescita garbata, che rispetti il Creato e i limiti fuori e dentro l’azienda. Un manager può guadagnare forse al massimo dieci volte quello che guadagna l’ultimo dipendente dell’azienda, ma perché spingere di più sulla divaricazione degli stipendi?»
Resta un problema, però. Il Made in Italy è celebre in tutto il mondo, ma qui stentano a crearsi grandi gruppi. Perché da noi non ci sono equivalenti dei francesi Lvmh o Kering, che anzi fanno collezione di marchi anche in Italia?
«Perché noi siamo industriali e non finanzieri. È il nostro modo di essere imprenditori: se io devo aprire un negozio a Chennai, in Cina prima mi sento con Della Valle e Loro Piana, chiedo informazioni e consigli. È il nostro modo di fare sistema; poi la mattina io ho la mia azienda e tu la tua. Ma non si può dire che noi non facciamo sistema: è proprio per questi legami che e nostre imprese sono di successo e innovatrici».
Ce ne sono tante, senza dubbio. Anche se le ultime previsioni danno una crescita zero per il 2019...
«Siamo pieni di imprese fantastiche, ma siamo anche troppo occupati a sparlare dell’Italia. Io penso che fuori ci sia un mondo che chiede la qualità, il gusto e lo spunto che solo noi siamo in grado di dare».
Non la preoccupa la situazione economica dell’Italia? Il debito pubblico?
«Senta, abbiamo il miglior Welfare State del mondo e il debito è in gran parte in mano agli stessi italiani, che sono tra i maggiori risparmiatori esistenti e all’80% hanno una casa di proprietà. Io penso che si debba ridare dignità al lavoro, puntare sulla nostra manifattura invece che su troppi servizi - nella strada principale di Solomeo c’erano tre bar, adesso ce ne sono quattordici - e tutelare con amore il territorio. Sono punti forti che nessun altro al mondo ha come noi».