la Repubblica, 30 marzo 2019
E l’inglese conia il verbo “to brexit”
Cosa sia “la” Brexit vera e propria potranno stabilirlo soltanto autorità come il governo May e la Camera dei Comuni: al momento non sembrano riuscire ad accordarsi al proposito tra loro e con l’Europa, eppure si sa che devono ormai spicciarsi. Cosa invece sia “una” Brexit lo sanno già i numerosissimi cultori dello humour britannico, che al nome dell’ancora ignota procedura hanno cominciato per tempo ad associare significati secondari, e fortunatamente indipendenti da maggioranze parlamentari e accordi con l’Europa.
Sarà capitato anche voi di trovarvi dopocena sul pianerottolo, cappotti indossati, ascensore convocato e nessuno fra padroni di casa e ospiti in uscita che ha il coraggio di interrompere la conversazione per chiudere finalmente la serata. Ecco, è una delle circostanze che oggi gli spiritosi britannici chiamano “Brexit”. È Brexit quando annunciate a ogni invitato al party che vi ritirate, baci, abbracci, promesse, rassicurazioni, state facendo il giro di saluti, ma alla fine non ve ne andate mai. È Brexit quando chiedete il conto al ristorante, lo pagate, ma continuate a stare al tavolo a chiacchierare, mentre il personale frigge per sparecchiare e terminare il servizio. È Brexit anche quando una coppia decide di separarsi, ma quello dei due che deve lasciare la casa non se ne va più, indugia, prende scuse.
La Brexit diventa la figura politico-diplomatica di una continua, estenuante procrastinazione, che non fa che annunciare un’imminenza senza approdo. È una perifrastica attiva della Storia, un “We are going to...” che non raggiunge mai il suo predicato, come con la tartaruga l’Achille del paradosso. Brexit è l’obbligo autoimposto e imperioso di non essere come prima, sospeso disperatamente nell’incertezza assoluta sul come essere dopo.
Brexit: sei tutti noi.