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 2019  marzo 29 Venerdì calendario

Lunga intervista a Paolo Conte

Paolo Conte forse vuole fumare. Ma si può? Non si può? E dove buttare la cenere? C’è solo il bicchierino del caffè. Pazienza, ci vuole. Tra meno di un’ora suonerà al Carlo Felice di Genova. Tutto esaurito. Un’abitudine, per l’autore di Azzurro, la canzone italiana più nota e cantata nel mondo (fonte Società Dante Alighieri). Se glielo dite, lui ride in sordina sotto i baffi, è un ottone con il silenziatore. Siamo nel suo camerino, e dietro di lui è apparecchiata una cena frugale: «C’hanno riempito di torta pasqualina», sorride. Nel pubblico, che sta iniziando a fare la fila, ci sono baby boomer, millennial, e tanti delle generazioni di mezzo.
Il segreto di questo successo trasversale?
«Non lo so, io sono del secolo scorso, non ho neanche il cellulare».
Partiamo dalla città che ospita il concerto, Genova, che poi Conte saluterà affettuosamente, in dialetto, a ricordare le vittime della tragedia del Ponte Morandi: «Xena, xena. Nel cuore!», prima di attaccare uno dei suoi pezzi senza tempo, Genova per noi. Con brividi di pura poesia, come il sole che è un lampo giallo al parabrise... Cos’ha provato nel tornare a Genova dopo il crollo del ponte Morandi?
«Una sensazione strana, di ferita. Non l’ho visto, siamo venuti da Levante. Ricordo bene però quando ho saputo, dalla tv, la notizia. Una tragedia impensabile, che non puoi concepire. Ho cercato di mettermi un po’ nei panni di un automobilista che si vede mancare la strada sotto. Cosa avrà provato? Terribile».
Si sente ancora un po’ randagio, in questa città?
«È fuori dal tempo, un luogo impervio. Urbanisticamente, architettonicamente, è fatta così, una fettuccia di case e palazzi sul mare. Secondo un disegno che non apparteneva neanche agli architetti ma alla morfologia della terra, stretta tra montagna e mare. Trovo sempre qualcosa di nuovo, mescolanza di genti, ma sa cosa mi piace proprio? Lo stile delle case dei Doria, le facciate a striscioni orizzontali, bianchi e neri, netti, eleganti».
Come tasti del pianoforte. Lei che associa ai colori le tonalità, a questi palazzi di Genova che tonalità accorda?
«Musicalmente il nero è un re bemolle e il bianco un sol. L’importante, direi, è non mescolare bianco e nero. Sennò diventa così, come la mia testa, grigio».
Quando ha deciso di farseli crescere, i baffi?
«Avevo 30 anni. Volevo camuffare un pochino la mia faccia. Non mi sono mai piaciuto tantissimo».
Poi qualcuno le avrà detto che stavano bene, no?
«Insomma. Diversi mi dicevano “perché non li tagli?”. Amici. Anzi, più amiche che amici. Immagino che sia un discorso più tra donne che tra uomini».
I baffi sono un discorso da donne?
«Non i baffi in sé, ma l’estetica, era più un discorso da donne. E guardi che allora avevo i baffi scuri, belli, mi davano più... vedrà, vedrà quando le diventeranno bianchi anche a lei, noterà la differenza, cala un po’ l’interesse».
Quindi la storia del brizzolato che piace non è vera?
«Devi vestirti bene, lo scuro aiuta. Ma non risolve. Vedrà. Non è nostalgia, è una questione di colori, contrasti».
Lei ha avuto una carriera piena di soddisfazioni. Qualche rimpianto?
«Penso ai tempi dell’università, fatta prima a Torino poi a Parma, dovevo scegliere la facoltà. Beh, avrei voluto fare Medicina. Poi però per ragioni diciamo più pratiche, di famiglia, che è gente di legge, ho preso giurisprudenza. Medicina mi piaceva, non tanto per la missione del medico, ma per la curiosità dello studio della medicina: il corpo umano, le sostanze, la chimica. Mi sembrava una professione forte, pratica, utile, mi attirava l’idea di far funzionare meglio la vita, è una bella cosa».
C’è riuscito, con le sue canzoni, piene di ironia e sensualità. Lei ha tanti fan che da decenni la seguono, e sicuramente a molti di loro ha migliorato la vita.
«Sì, ma mi sono sempre sentito un traditore. Vengo da una famiglia borghese di provincia, per cui fare l’artista non è un vero mestiere. Meglio il medico o l’avvocato».
L’avvocato. Un’esperienza che ha riversato anche nelle sue canzoni, come quelle della saga del Bar Mocambo.
«Da avvocato ho curato tre o quattro fallimenti e sento, ho sempre sentito un po’ di tenerezza verso certi personaggi falliti. Parlo di piccoli imprenditori, artigiani, uomini che avevano giocato un po’ troppo forte, e magari erano persone per bene, così io offrivo una tazza di caffè al... fallito, cercavo di mostrare la mia umana comprensione. Da noi c’è il tabù del fallimento. Ma a uno che è fallito almeno il caffè va offerto. Ricordo un caso, di uno piccolo, un artigiano del legno di origini austriache, bravissimo impiallacciatore di legno, ma è fallito perché ha fatto il passo più lungo...».
Questa esperienza le avrà fatto sviluppare empatia verso i falliti, anche in altri ambiti. 
«Non c’era premeditazione, ma mi ha reso familiare il fallimento, la dinamica. Nel mio primo periodo di cantautorato avevo un pubblico prevalentemente maschile, che proiettava su di me la sua débâcle sentimentale, poi finalmente sono arrivate le donne e tutto ha preso una piega migliore. Il peso specifico del pubblico si è, insomma, rinforzato».
Le donne sono al centro del suo mondo poetico. Sono cambiate in questi anni? 
«Dividerei. Ci sono le donne di cui ho parlato nelle canzoni, erano già allora di un’epoca precedente; erano da primo Novecento. Poi ci sono quelle che ho conosciuto, più moderne, lì ho trovato che tra gli universi maschile e femminile è avvenuta una comunicazione che prima non c’era. Per esempio, io ho sposato una donna, Egle, discretamente più giovane di me, ho toccato dal vivo qualcosa di nuovo».
Quale novità portò sua moglie?
«Un senso di libertà. Poi tante altre cose, ma la prima che mi viene in mente è la libertà».
Vi siete conosciuti in tribunale. Lei da avvocato, sua moglie lavorava là. Come l’ha conquistata?
«Credo con le prime canzoni, come Lo scapolo e La ragazza fisarmonica. È stata sempre appassionata di musica e profonda nel sentire, capire».
Il potere seduttivo di alcune sue canzoni è evidente. Mi chiedo: si ricorda qualche due di picche?
«Non so. Sa, come tutti ho delle rose che non colsi».
Ce ne è qualcuna che l’ha graffiata più delle altre?
«No. Nessun rimpianto. Se non assaggi... questo però non lo scriviamo nell’intervista...».
Assaggiare cosa?
«La rosa, finché non assaggi la rosa, non sai bene. Ecco».
Quando ha capito di avercela fatta, come musicista?
«Direi con Azzurro cantata da Adriano Celentano. E per molto tempo pensavo di fare solo l’autore per gli altri, mai mi immaginavo di diventare io, il cantante. Può immaginare, strisciavo dietro i muri».
Perché?
«Magari mi avevano visto in televisione, mi vergognavo, da provinciale... quale ero, e sono ancora».
Quando ha smesso di vergognarsi?
«Molto prosaicamente quando ho visto che mi rendeva abbastanza bene. Pareggiavo i conti. E poi il successo all’estero. L’estero ti mette davanti alla pura espressione, non c’è facilità di comunicazione. Non hai la tua lingua, sai che non la capiscono, devi comunicare in altro modo, ti viene da guardarli in faccia in un modo diverso».
All’estero ha presto conquistato Parigi, una piazza difficile. La riconoscevano anche i tassisti.
«Sì, non solo i tassisti! Anche altre... figure. Le racconto un aneddoto, di fine Anni 80. Stavo al teatro Olympia, tre settimane esaurito, e poi un mese intero agli Champs Élysées. Stavo facendo una passeggiata sul boulevard des Capucines, qualcosa del genere, e mi si para davanti un giovanotto, nero di pelle, vestito benissimo e mi fa, in francese: “Lei è Paolo Conte?”. “Sì”, dico. “Volevo dirle che la sua musica ha molto swing”. “Grazie”. Allora, pensi un po’ lei, io, italiano di provincia che ha amato il jazz, lo swing, che mi sento dire da un nero che ho molto swing... Mi si è rimescolato tutto dentro. Così gli chiedo: “Lei allora è musicista?” E lui: “No, no, io sono avvocato”».
Ha qualche progetto nel cassetto?
«Canzoni. Ne ho tantissime, lasciate lì in “attesa di venire capite”, come le rose di Hesitation».
Un rimpianto professionale, ce l’ha?
«Sono un tipo riservato di natura, mi sono sempre tenuto in disparte dal grande giro della musica, mi sono difeso, ecco. Certo questo mi ha impedito di avere più coraggio per fare altro. Una commedia musicale, o scrivere per un film importante, ambizioni naturali per qualsiasi compositore, è interessante scrivere una commedia o per un film. Ma ti devi dare da fare, ti devi muovere... con i contatti arrivi fino a Hollywood! E io sui contatti sono negato. Devo a mio fratello, Giorgio, e alla sua intraprendenza, i primi contatti con gli editori musicali milanesi, e quindi l’inizio dell’avventura di autore compositore».
C’era competizione tra voi? Pure Giorgio è musicista.
«Neanche per sogno. E perché mai? Ciascuno è sovrano nella solitudine della propria creatività. Dico bene?».
Immagino di sì. I suoi film preferiti?
«Tra gli indimenticabili dico Lo spaccone, con Paul Newman, Casablanca, visto otto volte e L’uomo senza paura con Kirk Douglas, visto sette volte».
Qual è il suo luogo del cuore?
«La casa in campagna del mio nonno materno, nell’astigiano. Ho vissuto estati bellissime, durante la guerra. È un ricordo paradisiaco che mi rimane, e mi capita anche di sognare, nel modo strano dei sogni, di essere lì e arrampicarmi come se provenissi da un Purgatorio e allora salire e salire e capire piano piano che sto arrivando lì e lì è il Paradiso. Era bello, campagna vera, colline potenti. I suoni, gli odori, i colori».
Un dettaglio restato impresso?
«Non saprei scegliere. Può darsi tutto insieme. La luce, allora d’estate c’era una luce diversa da oggi, più bianca, chiarissima. E il colore della terra arata. E gli animali. Mio nonno aveva dei cavalloni da tiro che mi piacevano tantissimo, grossi, maestosi, potenti. Poi i trattori, che disegnavo da piccolo. Poi ho disegnato anche donne nude, musicisti jazz... Mi piace molto disegnare».
Ha disegnato anche il suo cane Nelson, sulla copertina dell’album omonimo (del 2010). Eravate molto legati.
«Era bellissimo Nelson, nero lucido. Un cane pastore meraviglioso, un po’ tontolone ma di una bellezza unica. Indolente, sì, per farsi rispettare. L’ho avuto per 12 anni. Avevo visto in Francia un esemplare e me ne sono invaghito. Ho chiesto a Giuseppe, il mio segretario, e allora siamo andati da un allevatore, l’abbiamo preso cucciolo. Era proprio di razza. Io e mia moglie amavamo sederci e guardarlo camminare, davvero maestoso».
Di cosa va più fiero artisticamente?
«Non sono mai stato molto contento di quello che ho fatto. Non per perfezionismo, ma per carattere. Una eccezione è la canzone Gli impermeabili, quella proprio ho goduto per 4/5 giorni; mi piaceva la musica, le armonie, la lunga frase legata e le terze al basso che ti danno tutto un sostegno. Cantavo prima in finto inglese, come tutte le canzoni un po’ beat, con fonemi inesistenti, pur di sentire come stavamo in piedi; poi il testo, dove si cozza contro la lingua italiana che è difficile ritmicamente, poco elastica».
Molte immagini sonore dei suoi testi sono indimenticabili. Ce ne è qualcuna cui è più affezionato?
«Non so perché, ma mi resta dentro quella del Ghibli che soffia dietro una porta chiusa, di Colleghi trascurati ».
Come nascono queste immagini?
«Vengono al volo, scrivendo in fretta. Vengono bene se danno subito il piacere che ti dà un bel lampo».
Per chi segue la sua musica, viene naturale chiamarla “maestro”. Che significato ha questa parola per lei?
«Quando è poco usata, qualcosa significa, ma quando è troppo usata no, non significa molto».
Chi sono stati i suoi modelli, in musica e in letteratura?
«Per la musica Chopin e Louis Armstrong, in poesia Camillo Sbarbaro, Dino Campana e Giorgos Seferis. Sul tema del maestro le dirò una cosa. Avevo letto, sarà stato 30 anni fa, su una rivista in aereo, una bellissima intervista di Juliette Gréco che parlava dell’assenza di maestri, allora, e diceva che invece nella sua gioventù aveva contatto con i maestri, li potevi incontrare ai gardini pubblici, potevi chiacchierarci, oggi non c’è più questo contatto».
Se lei decidesse di passare un po’ di tempo ai giardini pubblici, ci sarebbe la fila. Di fan e giovani musicisti. Chi le piacerebbe conoscere? Ne ascolta qualcuno?
«Qualcuno. Ma non facciamo nomi. Ascolto poco. Anche la radio. Però cerco di capirli, di immedesimarmi nella loro leggerezza, che è forse il pregio che hanno più evidente per me. Mi piacerebbe incontrarmi con dei giovani, passarci del tempo assieme, al pianoforte, chiacchierare».
Ha mai visto un talent show?
«No, in tv guardo Canale Classica HD, calcio e tennis».
Allora la selezione di giovani musicisti, il casting, la facciamo ai giardinetti?
«Oggi nei centri delle città c’è il problema della ZTL, bisogna organizzarla bene la cosa, devo muovermi apposta. Prima ai giardinetti ci andavo, a portare fuori Nelson».
Il ricordo più bello di Nelson?
«Quando di notte lavoravo al pianoforte, avevo l’abitudine di chiudere con un breve passaggio di una canzone americana. Nelson, accucciato sotto il piano, immediatamente capiva che il concerto era finito. Si alzava, e se ne andava a dormire da un’altra parte».
È più facile amare gli animali degli esseri umani?
«Non è proprio così. Comunque, sia gli animali che gli esseri umani andrebbero amati di più».
Se lei fosse un animale, che animale sarebbe?
«Sono indeciso, tra elefante e asino. Entrambi adorabili».