il Giornale, 29 marzo 2019
I nuovi gulag di Jinping
Mentre l’Imperatore comunista Xi Jinping veniva celebrato in Italia con ostentata deferenza perché intende usare lo Stivale come uno svincolo autostradale della Nuova via della Seta, negli Stati Uniti uscivano resoconti spaventosi su quel che accade lungo la Vecchia via della Seta nella stessa Cina, e precisamente nello Xinjiang, la provincia Nord occidentale che storicamente rappresenta la porta dell’antica rotta commerciale: «È stato istituito un vero e proprio sistema di gulag dove sono internati almeno un milione di uighuri musulmani», ha scritto in un editoriale il Washington Post, proprio il giorno della cena di gala al Quirinale, invitando il Congresso a promuovere subito un pacchetto di sanzioni contro Pechino. Secondo il responsabile per i diritti civili del Dipartimento di Stato, Michael Kozak, il numero degli internati varia dai 900mila ai due milioni: «Il mondo non vedeva una cosa simile dagli anni Trenta del Novecento», ha commentato, «un’ondata di repressione che ricorda le purghe della rivoluzione culturale». E il senatore Marco Rubio ha detto che «quel che sta accadendo ai musulmani dello Xinjiang è la più grande incarcerazione di massa del mondo».
Da un’analisi delle immagini satellitari, l’agenzia Reuters ha stabilito che i centri di detenzione sono 1.200, almeno uno per ogni contea dello Xinjiang, e che nel solo deserto del Sud ovest si trovano 39 campi di concentramento che in 17 mesi sono triplicati in estensione fino a raggiungere complessivamente un milione di metri quadrati, l’equivalente di 140 campi di calcio. Se ancora non è genocidio fisico è «genocidio culturale di Stato», stando alle testimonianze dei pochi giornalisti che sono riusciti a visitare la regione, che per Reuters è «quella più controllata del Pianeta, molto peggio della Corea del Nord». Dal 2014 oltre un milione di civili cinesi iscritti al partito sono stati inviati nello Xinjiang per affiancare la polizia e letteralmente insediarsi nelle case degli uighuri e dei kazaki musulmani per controllarli e denunciarli. Si presentano come «parenti» e hanno il compito di «trasformare gli individui e la società», obbligano tutti a cantare durante l’alzabandiera davanti alla sede del partito e la sera ad assistere alle lezioni sulla «nuova Cina» di Xi Jinping. Gli uighuri devono conversare in mandarino e guardare solo la tv ufficiale. I «parenti» osservano, interrogano, prendono nota e giudicano il grado di cinesità o di attaccamento alle radici religiose ed etniche. Impongono il taglio delle barbe, il capo scoperto alle donne, la proibizione del pellegrinaggio alla Mecca. S’incrociano gli interrogatori nelle famiglie, compresi i bimbi, per cogliere le falle nelle sospette reticenze. Il manuale spiega come ingannare il presunto colpevole che si dichiara patriottico e laico, ad esempio offrendo alcol o cibo a base di maiale. I «parenti» fanno rapporto e si decide chi può rimanere a casa con i figli o tradotto nei campi di rieducazione. Stando a quel che filtra sono pochi gli adulti che sfuggono alle purghe.
Negli anni Sessanta e Settanta, statali e studenti erano costretti a visitare i villaggi per essere rieducati dai contadini, mentre l’operazione «Uniti come un’unica famiglia», voluta da Xi Jinping, funziona al contrario: il partito spedisce i compagni dalle città a cambiare i connotati delle masse rurali di uighuri e kazachi. L’offensiva nello Xinjiang è scattata dopo una stagione di attentati nel Paese, tra il 2009 e il 2014, attribuiti agli uighuri islamici e all’allarme per il risveglio di gruppi indipendentisti nella provincia. Ma solo negli ultimi mesi è emersa la dimensione della repressione in atto. La tv di Stato ha recentemente parlato della necessità di «salvare queste minoranze retrograde dall’ignoranza», ma secondo gli uighuri espatriati in Kazakhstan sono stati internati 159 intellettuali, compreso chi, come il poeta Abdulqadir Jalaleddin, aveva scritto una pubblica dichiarazione di lealtà allo Stato cinese.
Sono state raccolte testimonianze di torture e suicidi, di lavori forzati, di pasti concessi solo a chi è in grado di recitare a memoria e in mandarino testi di propaganda del partito o cantare canzoni patriottiche, di reparti femminili dove lo spazio è così ridotto che le detenute sono costrette a dormire a turno. I figli degli internati non possono essere affidati a parenti e quindi vengono costruiti anche nuovi orfanotrofi. Kashgar, nel Sud ovest della provincia, è la città più colpita. Vi risiedono solo minori e anziani, si parla di centomila adulti deportati. Era l’oasi dei viaggiatori lungo la Via della Seta, con un prezioso centro storico, esempio dell’antica architettura centro asiatica, ma col pretesto della precarietà dei vecchi edifici in terra battuta è stato praticamente spianato, mentre le moschee per sfregio sono state adibite a hotel o hookah lounge per turisti. L’uomo che ha organizzato e che guida la macchina della repressione è Chen Quanguo, segretario del partito della provincia, uno che si è già fatto valere in Tibet e che tra i 25 membri del Politburo è quello più vicino a Xi Jinping.
Dopo lunghe reticenze e continuando a negare che si tratta di campi di internamento, le autorità cinesi li hanno definiti «centri di trasformazione attraverso l’educazione», paragonando il trattamento riservato alla minoranza islamica a quello adottato per i drogati. Stati Uniti e Canada si fanno sentire, ma ciò che più colpisce è il silenzio dell’Europa. Il crescente potere globale della Cina è proporzionale al «realismo» con cui molti Stati – compresa l’Italia tacciono di fronte alle rivelazioni dei gulag 2.0. Non fanno eccezione i Paesi islamici, in particolare colpisce il silenzio di Ankara di fronte alla pulizia etnica in corso nei confronti di una minoranza musulmana di lingua turcomanna. Erdogan ha fatto la voce grossa contro la Nuova Zelanda per il massacro di Christchurch, ma sulla «rieducazione» dello Xinjiang la fatwa può attendere.