29 marzo 2019
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Biografia di Roberto Formigoni
Roberto Formigoni, nato a Lecco il 30 marzo 1947 (72 anni). Politico (Dc, Ppi, Cdu, Cdl, Fi, Pdl, Ncd, Ap, NcI). Ex presidente della Regione Lombardia (1995-2013). Ex sottosegretario al ministero dell’Ambiente (1993-1994). Già europarlamentare (1984-1993), deputato (1987-1995) e senatore (2006; 2008; 2013-2018). «In politica l’umiltà non è una virtù» • Figlio di un ingegnere e di un’insegnante. «Hanno detto che mio padre era un assassino, ma non è vero. Nel dopoguerra fu accusato di aver partecipato all’uccisione di quattro partigiani a Missaglia, un paese della Brianza dove era podestà e dove lavorava come ingegnere responsabile della cementeria. Non era andato in guerra proprio perché faceva un lavoro di utilità bellica. Alla fine del 1944 c’erano stati scontri cruenti tra partigiani e fascisti che finirono con la fucilazione di quattro ragazzi del paese. Mio padre fu processato: ma, prima della conclusione, venne prosciolto con l’amnistia voluta da Togliatti. Ho studiato attentamente le carte del processo e ho visto che, in ogni caso, la sua posizione si stava risolvendo e sarebbe stato sicuramente assolto. Lo interrogai e lui negò sempre, con grande calma e quindi con grande convincimento, qualsiasi partecipazione a episodi di violenza. Perciò io sono sicuro, come può essere sicuro un figlio, della sua innocenza. Del resto, mio padre non rinnegava il fatto di essere stato fascista. Votò per il Movimento sociale finché non ebbe l’occasione di votare per me. Ed era noto che da ragazzo aveva partecipato alla Marcia su Roma. A questo proposito c’è persino un particolare divertente. Riguarda l’uso che un adolescente può fare di un fatto serio e drammatico, come la Marcia su Roma. Nel 1922 mio padre aveva solo 18 anni e per lui fu probabilmente poco più di una scampagnata, perché dopo qualche giorno era già tornato a casa. Ma io ne approfittai nella polemica per le prime libertà. Dicevo: “Non rompere le scatole. Tu alla mia età hai fatto la Marcia su Roma e io non posso neanche avere le chiavi di casa”. Aprì la strada a tutte le altre libertà, comprese quelle dei miei fratelli, che, essendo più piccoli, godevano gratis i frutti delle mie fatiche di emancipazione. Erano gli anni del liceo e, come tutti i ragazzi, io volevo le ali. Fuori di metafora feci anche un corso di pilota di aerei, e arrivai a guidare un piper insieme al mio compagno di classe Roberto Castelli» (a Stefania Rossini). «“Lui giocava benissimo a basket. Io andavo meglio con la scherma. Nel ’64 ho sfiorato le Olimpiadi di Tokyo”. Addirittura. “Da adolescente mi avvicinai al movimento di don Giussani. A 14 anni, il presidente di Gioventù studentesca […] Angelo Scola mi propose di diventare redattore del Michelaccio, la rivista studentesca di Gs”. Don Giussani, quando lo conobbe? “Durante gli ultimi anni del liceo. Ricordo le trasferte a Varigotti. Giussani era un uomo che parlava di Cristo, più che un prete. Leggevamo Leopardi, ascoltavamo i canti russi. In confessione ti diceva: ‘Sapessi quante ne ho combinate io’”. Quando entra nei Memores Domini di Cielle e sposa i precetti di povertà, castità e obbedienza? “Intorno ai 23 anni”. […] Laurea su Marx alla Cattolica di Milano negli anni della contestazione. “Scelsi Marx per conoscere il nemico. In quegli anni noi di Cielle abbiamo subìto decine di aggressioni”. È stato picchiato? “Quando ci aggredivan,o persino il Corriere scriveva: ‘Il pronto intervento del Movimento studentesco ha stroncato una provocazione fascista’. Fascisti un cavolo! Votavamo Dc. Nel 1975 ci furono anche le elezioni universitarie: ho impressa l’immagine di due suorine che arrivano ai seggi ricoperte di sputi extraparlamentari”. Il Meeting di Rimini nasce in quegli anni. “Nel 1980. Gli amici di Rimini vennero da me e da Sante Bagnoli, fondatore di Jaca Book, per proporci l’idea. Partimmo a razzo. Poi, nell’81, Formigoni è il vero fatto nuovo dell’Assemblea degli esterni della Dc”» (Vittorio Zincone). «La prima vita di Formigoni è quella del giovane alto, imponente, il volto incorniciato da un barbone pensoso e un po’ da guerrigliero, perfetto per gli anni Settanta. Ma quel decennio, per lui come per il suo amico e compaesano Angelo Scola, […] è quello segnato da don Giussani, che fra le aule del liceo Berchet e i chiostri della Cattolica ha rivoluzionato il cattolicesimo italiano: il cristianesimo non può restare confinato in chiesa o, peggio, in una dimensione rituale, ma deve investire tutta la vita e traboccare nella società. Il giovane Roberto traduce il carisma in una scommessa: nasce il Movimento popolare, corrente anomala della Dc che poi si apparenterà al mondo andreottiano. Nel 1984 l’enfant estraneo alle camarille sbanca alle Europee con 450 mila preferenze. Strabiliante. L’intuizione straordinaria di Giussani sembra mutare anche i rapporti di forza dentro il paludoso mondo dei Palazzi romani. Ma la realtà è più complessa» (Stefano Zurlo). «Intanto l’Italia cambiava, la Dc non c’era più, e per un politico di matrice cristiana ritrovare la bussola non è facile. È in quel momento che Formigoni intraprende una breve stagione politica insieme a un altro allievo di don Giussani della prima ora: spaccatosi anche il Partito popolare, Formigoni è al fianco di Rocco Buttiglione nel Cdu fondato dal filosofo. Una convivenza difficile, conclusa nel peggiore dei modi, fra strascichi legali e contese persino sulle serrature, nello storico palazzo di piazza del Gesù. […] Il pomo della discordia è la scelta di Formigoni di andare con il centrodestra, Lega compresa, a guidare la Regione Lombardia. “Ma lì – gli dà atto Buttiglione – ha realizzato tante delle cose che avevamo progettato da giovani, attingendo alla dottrina sociale della Chiesa”. Il Movimento popolare aveva intanto chiuso i battenti e Formigoni nella "sua" Regione Lombardia volle vicino a sé tanti dei protagonisti di quella stagione: il fiorentino "ambientalista" Lele Tiscar, il palermitano Salvo Taormina, il cesenate Romano Colozzi, il cognato Giulio Boscagli, ex sindaco di Lecco, e soprattutto il riminese Nicola Sanese, con un passato da sottosegretario e responsabile organizzativo della Dc, nonché fra i promotori del Meeting. “La libera scelta delle famiglie, con l’introduzione del ‘buono scuola’, e l’affermazione di un sistema sanitario di eccellenza in sanità pubblico-privato – dice Sanese, a lungo segretario generale della Lombardia – sono stato il frutto di una ‘visione’ della politica basata sulla sussidiarietà. E, se si è potuto parlare di ‘modello lombardo’, è stato per il lavoro di una ‘squadra’ guidata da Formigoni”, rivendica oggi, al netto delle vicende giudiziarie. Alla guida della Lombardia Formigoni è rimasto molto più a lungo di quanto avrebbe voluto, di quanto immaginava per sé, dall’impareggiabile panorama che godeva dal 39esimo piano del Palazzone della nuova sede della Regione, vero e proprio "simbolo" della grandezza di quella lunghissima gestione. Ma chi lo ha prescelto in quel ruolo – Silvio Berlusconi, a lungo presidente anche del “suo” Milan – è lo stesso che gli ha più volte tarpato le ali, allorquando non ha fatto mistero, il "Celeste", di avere pronta una squadra per traslocare a Palazzo Chigi» (Angelo Picariello). «Poi l’eterno golden boy si stufa di essere una promessa, come Carlo d’Inghilterra. Vorrebbe il trono. Non capisce che il cielo sta cambiando: Berlusconi è costretto alle dimissioni; anche Cl ha cambiato pelle: Carrón ha rilanciato la lezione di Giussani, puntando dritto sull’io. Sulla persona, sulla sua balbettante capacità di giudizio, tramortita dalla scomposizione della modernità. I voti non sono più telecomandati, anzi in un certo senso siamo al “rompete le righe”. Al posto delle preferenze, ecco le inchieste. Milano gli presenta il conto: le vacanze da cartolina ai Caraibi, la casa in Sardegna, i pranzi nei ristoranti stellati. Il lusso. Le foto dirompenti di lui nelle acque dell’oceano. La barba sinistrosa e severa degli esordi stona con i fasti superbi dell’età avanzata. Con l’arroganza che a tratti schiuma in sfuriate epiche, regolarmente immortalate» (Zurlo). «Nel 2011 scoppia lo scandalo Ruby Rubacuori e la consigliera Pdl Nicole Minetti, entrata nel "listino del presidente", si ritrova nei guai. Poi vengono arrestati assessori e politici: uno, Domenico Zambetti, per i rapporti con la ’ndrangheta. Ed è nello stesso periodo da terremoto che emerge lo scandalo dei 61 milioni di euro usciti dalle casse dell’ospedale San Raffaele e dalla clinica Maugeri per approdare verso l’imprenditore Piero Daccò e l’ex assessore regionale Antonio Simone, amici di lungo corso del Celeste» (Piero Colaprico). «Formigoni si è difeso in un modo che negli Stati Uniti sarebbe sufficiente a far scattare l’impeachment. Ha esordito dicendo di non conoscere Daccò: e poi ha dovuto rettificare. Quindi ha assicurato di aver rimborsato le spese per le vacanze: ed è stato smentito. Infine ha reagito alla notizia dell’indagine contro di lui non dicendo che non gli risultava (cosa possibile), ma che non era vero. Atteggiamenti che, lungi dall’intimorire i nemici, hanno indotto anche gli amici ad abbandonarlo» (Michele Brambilla). Travolto dalle inchieste giudiziarie e rinnegato dalla Lega Nord, nell’ottobre 2012 Formigoni accettò di varare una nuova giunta provvisoria con cui concludere anticipatamente il suo mandato: nel febbraio successivo, alla presidenza della Lombardia fu così eletto il suo principale avversario, l’allora segretario federale leghista Roberto Maroni, che lo stesso Formigoni si era rassegnato a non ostacolare (evitando di sostenere la candidatura di Gabriele Albertini, contrariamente a quanto inizialmente annunciato) pur di ottenere un posto sicuro nelle liste di Forza Italia per il Senato alle concomitanti elezioni politiche. «Nel suo ultimo "giro" al Senato non sembrava più lui. O forse, al contrario, nella consapevolezza dei rischi giudiziari incombenti e nella percezione della fatuità della gloria politica, spesso solitario alla buvette, stava un po’ ritrovando se stesso. La non elezione, nel marzo scorso [2018, tra le file della formazione Noi con l’Italia, ascritta alla coalizione di centrodestra – ndr], con il venir meno dell’ombrello dell’immunità, la deve aver vissuta come un anticipo dell’epilogo» (Picariello). L’epilogo non fu politico, ma giudiziario: a decretarlo, il 21 febbraio 2019, la Corte di cassazione. «La difesa sperava non tanto in un’assoluzione, quanto in un rinvio alla Corte d’appello, così da raggiungere a luglio il limite della prescrizione. Ma non c’è stato nulla da fare. Per l’ex governatore della Lombardia Roberto Formigoni […] si sono aperte le porte del carcere. Per lui infatti vale la norma “spazza corrotti”, che prevede per i reati contro la pubblica amministrazione l’esecuzione delle pena senza deroghe (nemmeno quelle per l’età, pur avendo Formigoni compiuto 70 anni). Lo hanno deciso i giudici della Sesta sezione penale della Cassazione, condannandolo per corruzione a 5 anni e 10 mesi, con un leggero sconto di pena per prescrizione, nel processo Maugeri-San Raffaele. […] Il sostituto procuratore generale di Milano Antonio Lamanna ha quindi firmato l’ordine di esecuzione della pena per Formigoni. Il quale si è costituito spontaneamente nel carcere di Bollate. Gli avvocati Mario Brusa e Luigi Stortoni hanno presentato istanza di sospensione dell’ordine di esecuzione, chiedendo quindi – come ci si aspettava – che la pena venga scontata ai domiciliari. Deciderà la Corte d’appello. Il pg della Cassazione Luigi Birritteri aveva parlato, […] durante la requisitoria davanti alla Suprema corte, di un “imponente baratto corruttivo” relativamente al crac delle fondazioni Maugeri e San Raffaele. Le inchieste, avviate dalla Procura di Milano e dalla polizia giudiziaria della Gdf dal 2012, riguardano la distrazione di fondi pubblici per finanziare le strutture ospedaliere del San Raffaele e della Maugeri, rispettivamente per 30 e per 70 milioni. Il primo caso, però, è prescritto. La condanna arriva quindi solo per la Maugeri di Pavia. La tesi della procura, confermata sia dal Tribunale di primo grado che dalla Corte d’appello, è che Formigoni abbia arbitrariamente deciso di erogare denaro pubblico, dopo essere stato corrotto dai lobbisti Antonio Simone (ex assessore alla Sanità della Lombardia) e Pierangelo Daccò, suoi amici di vecchia data. In particolare, era quest’ultimo a pagare le sue note vacanze sugli yacht. La polizia giudiziaria di Milano aveva quantificato l’ammontare della corruzione, ovvero le utilità ricevute in circa 10 anni, in 8 milioni, poi ricalcolate dalla sentenza di primo grado in 6,5 milioni. Intanto Simone e Daccò hanno già patteggiato in appello lo scorso anno (4 anni e 8 mesi il primo, 2 anni e 7 mesi il secondo). La distrazione di fondi, secondo l’impianto dell’accusa, è stata possibile grazie allo strumento, introdotto proprio da Formigoni, delle “funzioni non tariffabili”, ovvero finanziamenti che ogni anno potevano essere erogati valutando volta per volta le iniziative dei singoli enti. Questo si traduceva in una sorta di mano libera sui conti, con delibere che potevano essere dirottate da una parte o dall’altra in modo abbastanza snello. Le utilità ricevute da Formigoni erano fatte di regali, inviti, vacanze, non di denaro. Una delle prove principali dell’accusa, durante il dibattimento, è stato proprio il fatto che Formigoni di fatto utilizzasse poco o nulla il suo conto corrente: in 5 anni erano usciti poco più di 20 mila euro. Una cifra inverosimile, sostenevano i procuratori di Milano. La difesa sottolinea invece che il “Celeste” viveva in una confraternita “Memores Domini”, facendo quindi voto di castità e povertà. Tutti i beni venivano condivisi con gli altri conviventi e non ci sarebbe stata, ha detto lo stesso Formigoni, una diretta disponibilità di denaro attraverso i propri conti correnti. Formigoni è da sempre uomo di Comunione e liberazione. Anche durante la difesa in Cassazione l’avvocato Franco Coppi ha ribadito che non sarebbe stato provato nessun legame tra “le presunte utilità e le operazioni in Regione”. Invece, ad avviso del pg, da parte di Formigoni c’è stato un “sistematico asservimento della funzione pubblica agli interessi della Maugeri, un baratto della funzione”» (Sara Monaci). «L’uomo che ha governato la Lombardia per 18 anni è stato assegnato al primo reparto della casa circondariale di Bollate, che ospita tendenzialmente detenuti più anziani e quelli protagonisti di vicende che hanno avuto particolare clamore mediatico. Nello stesso blocco di quattro piani, infatti, si trovano anche Alexander Boettcher, condannato per le aggressioni con l’acido, e Alberto Stasi, che sconta la pena per l’omicidio di Chiara Poggi, a Garlasco. Formigoni “abita” in una cella da quattro posti, al terzo piano. […] Lì […] trovano posto anche i due zaini pieni di libri (tra i quali La banalità del male di Hannah Arendt) che Formigoni ha voluto portare con sé. Ma durante la giornata, dalle 8 alle 20, le porte delle celle restano aperte e i detenuti sono liberi di circolare nel reparto o di partecipare alle tante attività di formazione e lavoro offerte nell’istituto. […] “È stato accolto con simpatia dagli altri detenuti – riferisce l’avvocato Brusa – e sta trovando il modo di adattarsi all’ambiente”» (Giampiero Rossi) • «Formigoni rimarrà per sempre una spettacolare promessa mai mantenuta. Per tre volte si è autocandidato ministro degli Esteri, ha cercato fortissimamente Roma e il proscenio nazionale, e per tre volte in pubblico – e altre cento in privato – Berlusconi lo ha respinto nella fortezza lombarda dove lui aveva ormai vinto tutte le elezioni, conquistato tutti gli spazi, scalato tutte le vette fino a lasciare a fianco del Pirellone un grattacielo ancora più alto, quella nuova sede della regione che i milanesi chiamano “Formigone”, simbolo di un governo che è stato forte, un potere quasi incontrastato» (Salvatore Merlo) • Celibe, senza figli. «“Io non sono mai stato fidanzato con nessuno”. […] Ma la storia della castità è vera? “Sono fatti miei”» (Zincone). «Una scelta come la sua comporta quella di non avere figli. Rimpianti? “Rimpianti direi di no, però certamente è una scelta importante”. Non ha mai incontrato una donna capace di farle pensare “la sposo, cambio vita”? “Più di una”. E il voto di castità? “L’impegno a osservare il voto c’è. Dopodiché, siamo nel mondo. E poi, il rapporto con una donna non è fatto solo di sesso. Quindi non è necessariamente in contraddizione con l’impegno che abbiamo preso davanti al Padre”» (Sara Faillaci) • Stile d’abbigliamento particolarmente eccentrico. «Memorabile la giacca arancione, disegnata dallo stesso ex governatore, che la considerava un portafortuna. Ma fecero discutere molto anche il giubbotto di pelle alla Fonzie, il cappotto bicolore, le camicie floreali, quella arancio con un drago disegnato e i jeans con la stampa della Pantera Rosa. Anche se i cronisti erano abituati ai suoi look stravaganti, Formigoni riuscì a stupire tutti alle Comunali del 2011, quando si presentò a votare con un giubbotto di pelle nero e una maglietta bianca con la faccia di Paperino e la scritta "Donald Duck". Organizzò anche un concorso per assegnare il "Formaglione", un capo disegnato dallo stesso Formigoni, al suo follower social numero 40 mila. Non andò benissimo, perché dopo la cerimonia un quotidiano lo accusò di aver premiato il marito di una sua collaboratrice» (Fabio Florindi). «Fin da ragazzo mi piaceva uscire dagli schemi. Le prime camicie colorate le ho comprate nel 1970 a Londra, ma prima di metterle in pubblico mi sono dovuto far conoscere; se le avessi indossate nel ’95, quando mi hanno eletto in Regione, i lombardi avrebbero detto: “Chel le l’è mat”» • «Un politico, tre soprannomi: “il Celeste”, perché, sì, è un berluscone azzurro, ma viene dalla Balena Bianca ed è ciellino fino al midollo; Formigoil, nomignolo che gli affibbiò Marco Travaglio giocando sul coinvolgimento nell’inchiesta Onu-irachena “Oil for food”; e “Signorino Presidente Roberto Formigoni”, come lo chiamò Rosy Bindi sfottendolo per la sua dichiarazione di castità» (Zincone). «“Il Celeste” è un nomignolo affibbiatomi dagli amici alleati di governo per via della giacca celeste e del fatto che il mio ufficio fosse al trentacinquesimo piano del Pirellone» (ad Antonello Caporale) • «A lungo, nel suo regno quasi ventennale, era sembrato che un “effetto Teflon” tenesse al riparo Formigoni dai guai giudiziari: gli avvisi di garanzia finivano regolarmente in niente, e in niente finivano anche i tentativi di inguaiarlo di rimbalzo, facendo perno sugli aspetti più surreali della sua grandeur: come i contatti con Saddam Hussein e Tareq Aziz per alleviare gli effetti dell’embargo sulla popolazione irachena, ricompensati – secondo una strampalata inchiesta dell’Onu – con qualche milione di barili di greggio. Non capivano, i giudici, che a muovere il governatore non era la sete di quattrini (nessuno gli ha mai consegnato un euro, neppure secondo le inchieste), ma la libidine del potere: di cui i pranzi, le vacanze, gli yacht, le ville erano l’orpello e la conferma. Come lo erano a loro modo le giacche improbabili che lo facevano a volte apparire come una imitazione della imitazione di Crozza. Dovette dimettersi per un reato non suo, i rapporti con la ’ndrangheta dell’assessore Zambetti. Cade, e non poteva essere diversamente, sul fronte che era anche il suo orgoglio: la trasformazione della sanità lombarda in un business efficiente e redditizio, una macchina in grado di soddisfare tanto i bisogni dei pazienti che le casse di pochi e selezionati soggetti privati. Una scommessa vincente, ma che – per gli interessi mostruosi che muoveva – doveva essere tutelata da una visione quasi monastica dei rapporti personali. Il Formigoni de l’État c’est moi non se ne rendeva più conto» (Luca Fazzo). «È possibile ed è giusto ridurre diciotto anni di governo lombardo, e di interazione quotidiana tra amministrazione e società in uno dei luoghi più ricchi e competenti della nazione, a un romanzo criminale fondato sul baratto? Io a Formigoni rimprovero di non aver mai saputo fare politica, il che è stato un errore, peggio che un crimine, e naturalmente un errore non comporta la pena della galera per cinque anni e dieci mesi, ma ai suoi amministrati […] mi sento di rimproverare l’incapacità di domandarsi pubblicamente dove erano lungo questi diciotto anni e dove sono adesso, come classe dirigente e come borghesia moderna» (Giuliano Ferrara). «Di sicuro, il modello creato, a dispetto delle macchie e delle cadute, ha fatto scuola nei morti stagni della politica italiana» (Zurlo) • «Se Milano e la Lombardia oggi sono grandi, lo devono anzitutto a due giunte: quella regionale di Roberto Formigoni e quella municipale dell’ex sindaco Gabriele Albertini. La rifondazione della sanità, il buono scuola, le infrastrutture, i grattacieli di Porta Nuova e Citylife. Oggi vogliono cancellare questa esperienza». «Che spiegazione si dà, per tutto quel che le è accaduto? “Ho avuto potere. Tra 2010 e 2011 ero il presidente della Lombardia per la quarta volta consecutiva. Ero stato designato come il possibile successore di Silvio Berlusconi alla guida del centrodestra. Avevo fatto riforme positive. Può bastare?”» (Maurizio Tortorella). «È un processo a 20 anni di governo virtuoso della Lombardia. Mi hanno condannato al rogo e alla damnatio memoriae» (a Maurizio Giannattasio).