Avvenire, 29 marzo 2019
In campo la squadra dei Maya
Vincere o perdere, per il Club Social Deportivo Xejuyup, non conta. Per i suoi giocatori l’unica cosa che conta è indossare la maglia della squadra. O meglio: indossare casacca, gonna e fusciacca, gli abiti della tradizione Maya. La storia del CSD Xejuyup (pronuncia sciei-hu-yup) comincia nel sud del Guatemala nel 1982, quando Antonio Perechù viene incaricato di mettere insieme una squadra per una partita di esibizione da giocare in una città vicina. Perechù, di ruolo portiere, all’epoca ha già messo da parte il sogno di diventare un calciatore professionista.
Nel 1982 il Guatemala si trova nel pieno della guerra civile e lo stesso Perechù viene costretto ad arruolarsi nelle forze civili di autodifesa volute dal governo. Ma nonostante le difficoltà riesce a riunire i migliori calciatori di Xejuyup, un villaggio di quattromila anime il cui nome, in lingua K’iche’ Maya significa più o meno “sotto le montagne”. Non solo riesce a riunirli, ma li convince a utilizzare, al posto dei classici completini da calcio, gli abiti della tradizione Maya. Perché l’intenzione di Antonio Perechù è ricostruire intorno alla squadra di calcio l’identità della comunità del suo e di altri villaggi. Da allora i giocatori del CSD Xejuyup calcano i campi del Guatemala indossando il coxtar (la gonna), il kutin (la casacca) e il pas (la fusciacca). Abiti che trasmettono l’orgoglio di rappresentare un’intera cultura. Un legame che i giocatori indossano, perché ogni colore, ogni ricamo, ogni trama della divisa ha un preciso significato che si colloca nella tradizione Maya, in cui gli uomini sono profondamente legati alla natura. La casacca rossa in cotone con inserti blu e gialli rappresenta gli elementi naturali. Il coxtar, una specie di kilt in lana pesante, simboleggia il sole che albeggia tra le montagne e infine il pas, la fusciacca che regge il coxtar, rappresenta la forza sprigionata dai terremoti che, nella mitologia Maya, hanno contribuito a dare origine al mondo.
Grazie anche alle partite del CSD Xejeyup le popolazioni indigene del Guatemala stanno ritrovando l’orgoglio delle proprie radici culturali e storiche.Non è raro, infatti, che durante uno dei tanti match amichevoli in trasferta (la squadra non partecipa a nessun campionato ufficiale) il pubblico di casa, composto da indigeni, cominci asostenere i giocatori che indossano la gonna al posto dei pantaloncini. Anche se, per dirla tutta, per motivi pratici laindossano sopra i pantaloncini.
Ma, dettagli tecnici a parte, il messaggio che arriva al pubblico è chiaro: siamo una comunità, non dobbiamo vergognarci delle nostre origini. Per questo motivo Miguel Perechù – insegnante di educazione fisica, figlio del fondatore Antonio e oggi factotum della squadra – durante il riscaldamento parla con i suoi in lingua K’iche’ Maya. Anche questa una scelta di grande valore simbolico, se si pensa che per anni i Maya avevano preferito tenere un basso profilo, rinunciando a insegnare la propria lingua ai figli o a indossare gli abiti tradizionali.
La guerra civile che ha dilaniato il Guatemala dal 1960 al 1996 ha avuto un impatto terribile sulle popolazioni indigene, vittime di rappresaglie per il solo torto di vivere nelle zone in cui si nascondevano i guerriglieri. Secondo i dati della Commissione per il chiarimento storico (Comisión para el Esclarecimiento Histórico) oltre l’80% delle duecentomila vittime e persone scomparse apparteneva al popolo Maya e lo stesso villaggio di Xejeyup venne occupato dall’esercito. Dopo la firma della pace, il paese si aprì alla globalizzazione e venne invaso da abiti usati provenienti dagli Stati Uniti venduti nei mercati locali a bassissimo prezzo. Risultato: praticamente nessuno indossava più gli abiti tradizionali, soprattutto tra gli uomini. È facile, quindi, comprendere perché Miguel Perechù, in ogni occasione possibile, ci tenga a ricordare che «il costume è un simbolo e la squadra lo indossa con grande responsabilità» per tutto il popolo indigeno del paese «e per il Guatemala nel suo insieme».
Un simbolo che viene realizzato a mano dalle donne del villaggio, che impiegano circa due mesi per tessere ogni singolo kutin per i calciatori della squadra: una casacca che arriva a costare circa 240 euro, ben più di una maglia ufficiale di Juventus, Real Madrid o Barcellona. Una divisa che durante le partite diventa ancora più pesante con il sudore, o peggio ancora se si gioca sotto la pioggia. Ma l’orgoglio di giocare per il proprio popolo supera ogni impedimento tecnico, perché quando scendono in campo i giocatori dello Xejeyup si sentono vicini ai gemelli Maya che, secondo la tradizione pre-colombiana, sconfissero il Signore dello Xibalba (l’oltretomba) in un antico gioco simile al calcio. E questa passione ora ha coinvolto anche le ragazze del villaggio e i bambini con la nascita della squadra femminile e della scuola calcio. Protagonisti diversi, stesso obiettivo: diffondere il messaggio di orgoglio identitario partorito nel 1982 dall’ex portiere Antonio Perechù.