la Repubblica, 29 marzo 2019
I voltagabbana, l’anima del fascismo
Gli italiani sono stati fascisti, ha scritto Antonio Scurati. È passato un secolo dalla fondazione dei Fasci di Combattimento e, come ha ricordato Eugenio Scalfari domenica scorsa, la questione è tornata d’attualità. Scurati sostiene giustamente che c’è stata una rimozione. Dopo il 25 aprile 1945, quando una minoranza, seppur consistente d’italiani, aveva riconquistato per tutti la libertà perduta sotto la dittatura con la lotta partigiana, per la maggioranza dei nostri connazionali era scattato il “liberi tutti”. I problemi irrisolti, ci ha avvertito Freud, ribussano alla porta, e così dopo decenni di rimozione collettiva, la questione del Fascismo torna a interrogarci. Come gli italiani sono diventati fascisti? Per capire quello che è avvenuto tra il 1919 e il 1929 bisogna prendere in mano un libro che sembra sia stato scritto ieri per la freschezza del suo linguaggio e la lucidità dello stile. Si tratta di Marcia su Roma e dintorni di Emilio Lussu, ristampato da Einaudi.
Nato nel 1890, Lussu era stato ufficiale della Brigata Sassari nella Prima guerra mondiale, aveva fondato il Partito Sardo d’Azione, e quindi deputato nel 1921. Il libro l’ha scritto nel 1933, a Parigi, dopo essere fuggito da Lipari, dove era stato confinato dai fascisti e aver dato vita a “Giustizia e Libertà”, raggruppamento da cui nasceranno le brigate partigiane, e il Partito d’Azione. L’aveva fatto per spiegare al resto dell’Europa cosa era accaduto nel nostro paese.
Lussu, avvocato, non è un letterato di professione e, come un altro scrittore simile, il chimico Primo Levi, ha scritto un’opera che si può considerare un classico delle nostra letteratura, insieme a Un anno sull’altopiano (1938), che è letto nelle nostre scuole, e dove la Marcia su Roma e dintorni dovrebbe essere presente. Il libro comincia con la smobilitazione dell’esercito e con l’impresa di Fiume, con D’Annunzio, che Lussu indica subito come un personaggio estetico, prima ancora che politico. Il libro ci fa capire che il fascismo poteva essere battuto se la classe dirigente vi si fosse opposta, se il re avesse accettato di dichiarare lo stato d’assedio, se l’esercito e le forze dell’ordine, il sistema politico tutto, avessero resistito.
Nell’ottobre del 1922 accade l’evento che dà il titolo al libro.Ma cos’era questa marcia su Roma?, si chiede. Le idee di Mussolini non erano per nulla chiare. Intervistato nell’agosto dello stesso anno ne aveva dato una descrizione molto approssimativa; tre direttrici: costiera adriatica, tirrenica e valle del Tevere. Guardando la cartina l’ex ufficiale sardo spiega che era un bel pasticcio, tanto che lo stesso onorevole Facta, presidente del Consiglio, l’uomo che con le sue dimissioni favorì l’ascesa di Benito Mussolini, aveva affermato: «L’espressione va interpretata come una figura retorica». Di retorico c’era ben poco, se non che il fascismo s’era aperto la strada con una serie continua di violenze e di intimidazioni agli avversari, di cui lo stesso Lussu, che narra le vicende accadute nella sua Sardegna, fa le spese. Il libro è brillante, acuto, diretto, senza fronzoli, scritto con una vivezza che hanno i testimoni diretti.
Il punto saliente sta nella figura del “voltagabbana”. L’autore non usa questa parola, ma il significato delle cose che dice è questo: chi per utilità personale muta facilmente opinione o partito. La parola del resto è stata registrata nel dizionario di Panzini proprio nel 1919. Il fatto è questo: nel giro di pochi mesi – non anni! – molti esponenti antifascisti cambiarono casacca, diventarono fascisti. Perché? L’ex combattente della Grande Guerra non dà spiegazioni psicologiche, descrive piuttosto i due campi: i fascisti, che spesso sono stati suoi commilitoni, sottoposti o ufficiali superiori nel conflitto appena terminato; e gli antifascisti che diventano fascisti pur di conservare situazioni di potere. Lussu è sarcastico nel descrivere il caso dell’onorevole Aldo Rossini, sottosegretario alle pensioni di guerra, democratico nato, accanito antifascista, diventato fascista, e per giunta senatore, oppure quello di Pietro Lissia, suo amico personale, di cui racconta con dovizia di dettagli la trasformazione. Lissia, apparteneva al gruppo parlamentare della democrazia sociale; notoriamente attaccato alle istituzioni democratiche, alla libertà, nemico delle sperequazioni della ricchezza e del centralismo dello Stato, in Inghilterra lo si sarebbe detto «un liberale di estrema sinistra» e in Francia «un radicale socialista». Proprio lui, che confida a Lussu: «Bisogna che il fascismo sappia che per vincere deve passare sui nostri cadaveri», cambia casacca. Prima definisce Mussolini un brigante, un somaro che aspira a diventare presidente del Consiglio; dopo la fatidica marcia verso i dintorni, evento più virtuale che non militare, diventa rappresentante del governo in Sardegna. Le pagine che dedica al comizio di Lissia con la mano in tasca a Cagliari, sono impietose e insieme tragicomiche.
Alla fine tre sono gli insegnamenti che questo capolavoro di narrazione civile ci trasmette. Primo: come scrive l’autore, «l’immaginazione gioca sempre una gran parte nei momenti di agitazione politica», ovvero che produce realtà sia come false notizie, sia come capacità di dar forma alle cose stesse. Secondo: occorre resistere; dinanzi alle minacce, alle ribalderie, alle violenze dei fascisti il sistema non oppose nessuna vera resistenza a livello istituzionale e aprì le porte a Mussolini, nonostante che i fascisti non fossero maggioranza nel paese. Lo diventarono, e qui viene il terzo insegnamento. Sono state persone oggi per noi oscure, non i nomi noti dei gerarchi del fascismo, a dare a Mussolini la vittoria, persone ignote come Lissia, che con il loro opportunismo fecero fascista l’Italia. Piccoli personaggi locali, deputati e senatori, gente che non voleva perdere il seggio, si mise in divisa nera e urlò: “Eja!Eja! Eja! Alalà”.
I voltagabbana, gli opportunisti, sono loro che rendono agevole l’avvento delle dittature. Poi come si possa consolidarlo questo potere, l’ha spiegato molto bene ai giudici del processo di Norimberga il gerarca nazista, Hermann Göring: chi vuole controllare un paese, in qualunque epoca, per prima cosa deve instillare la paura nella popolazione, e poi chiamare traditore chiunque non sia d’accordo. Gli anni passano, ma le questioni restano le medesime.