la Repubblica, 29 marzo 2019
Il problema dei soldi pubblici ai partiti
Sì, ma poi come li spendono? Ammesso e non concesso che ritornino i soldi del finanziamento pubblico, che garanzia c’è che i partiti, o quel che ne rimane fra leaderismi selvaggi e cerchi magici, li utilizzerebbero davvero in modo ragionevole? La prima legge che disciplina il prezzo della democrazia risale al 1974, varata in corsa dopo lo scandalo primigenio dei petroli: così i partiti non avrebbero più rubato; così la politica non sarebbe stata monopolizzata dai ricchi. Ma tali promesse o speranze che fossero, non durarono così a lungo se già nel 1978, in un apposito referendum, una quota consistente di elettori, il 43,59 per cento, votò per abrogare quelle disposizioni. E tuttavia quel risultato non consigliò prudenza, tutt’altro, per cui alla metà degli anni 80, in turbinoso spendi & spandi di spot, addobbi, garofani, hostess, templi, piramidi, discoteche, perfino un cinema e altri primordiali eccessi d’immagine e show, i partiti s’incamminarono verso Mani Pulite con la lieta e cieca spensieratezza di chi affrontava la faccenduola del proprio sostentamento con la manica larga e la manina svelta.
In questo senso 45 anni sono un tempo sufficiente per un bilancio che onestamente, pur riconoscendo in teoria la giustezza e necessità del finanziamento pubblico, appare più che problematico. Per venire a tempi più recenti, è bene sapere che nel 2013 l’affitto della penultima sede di Forza Italia, a Palazzo Fiano, un trionfo di marmi affreschi schermi e design, costava 960 mila euri l’anno.
Nell’appartamento del Cavaliere campeggiava un divano bianco di quattro metri; e per ingraziarsi parte del personale Verdini regalò orologi con iniziali ai funzionari del partito, quasi tutti di lì a poco posti in cassa integrazione, poi messi fuori con annose e comprensibili recriminazioni. E dispiace qui indulgere in apparente antipolitica, ma pure in quel caso, oltre a Berlusconi, aveva pagato anche Pantalone.
Su tali basi nella Seconda Repubblica, privatizzata da un miliardario e alimentata da un sistema in cui non si trattava più di finanziamenti, ma di ipocriti rimborsi, partiti e partitini hanno finito per fare la gioia degli immobiliaristi che li accontentavano secondo una specie di disponibilità circolare.Per cui lo stesso Verdini, con il suo clan, affittò il medesimo appartamentone dalle parti del Tritone che prima era stato dell’Ape di Rutelli e di Fli di Fini.
Nessuno, figurarsi, andava mai in periferia. Neanche il Pd che sciaguratamente si sistemò al Circo Massimo nel prezioso e famigerato loft, tutto in legno e acciaio d’inconfondibile stile newyorchese: costo 250 mila euri, tempo di permanenza in quella sede, inaugurata con spruzzi di spumante sugli operatori dei media, appena cinque mesi, non esattamente un buon affare.D’altra parte i democratici di Veltroni, Bersani e Renzi seguitarono ad assumere gente e ad abitare nella sfarzosa sede ex Margherita del Nazareno, sul cui terrazzo rifulgevano ombrelloni, vimini e agrumi. Nel frattempo ben tre amministratori si facevano la guerra. Qualche tempo dopo si venne a sapere che uno di loro, l’ex boy scout margherito Lusi, aveva letteralmente spolpato il suo ex partito utilizzando i quattrini pubblici per comprarsi appartamenti e ville ai Castelli e consumare spaghetti al caviale, che facevano 180 euri il piatto.
E insomma, viene anche da chiedersi: ma se li meritano? Non sarà che da pessimi amministratori hanno esagerato con i giornali, le consulenze, i treni-spettacolo, gli aerei privati, le navi, le televisioni (addirittura due nel Pd a un certo punto: RedTv e Youdem)? Non sarà che il leaderismo megalomane li ha spintonati verso gli alberghi di charme, i ristoranti di lusso, gli inni, i palchi spaziali, le torte alla glassa creativa, i documentari encomiastici, gli inutili corsi di formazione, i sondaggi mendaci, le mortificanti distribuzioni, dal cibo agli spray al peperoncino, o i gadget che nessuno avrebbe mai comprato? È dinanzi a proposte come questa che si sconta, con allegra amarezza, l’avere una classe politica senza credibilità.
Basti pensare a quando divenne pubblico che fra le spese “per la politica” nelle regioni rientrava l’acquisto del parquet di casa, o di tinture per capelli, campanacci da mucche, contravvenzioni, mazze da golf, Barbie, peluche, croccantini del gatto, icone sacre, gratta & vinci, corni istoriati e sex toys (in Emilia e in Alto Adige). Ed è difficile, specie oggi, chiedersi qual è il prezzo perché i partiti tornino a essere ciò che per essi prevede la Costituzione se ancora i preposti organi stanno cercando di capire come diavolo i prestigiatori della Lega abbiano fatto sparire la bellezza di 49 milioni. Ma mica dieci anni fa, è successo ieri – e ieri l’altro erano i soldi per la laurea albanese del Trota, e per ulteriori spesucce di ordinaria, ormai, ma anche disperata insignificanza.