Corriere della Sera, 28 marzo 2019
I 90 anni di Milan Kundera
Ricordo ancora la notte in cui divorai I testamenti traditi di Milan Kundera. A pochi mesi dalla laurea, quasi niente di quello che avevo imparato era all’altezza degli scrittori che amavo, né sembrava indicarmi la strada per diventare a mia volta scrittore. Trovavo inservibili le interpretazioni sociologiche, la paccottiglia freudiana, i giochetti semiotici, gli ultimi fuochi dello strutturalismo che sin dal primo anno mi erano stati inflitti come olio di ricino. Ero stordito dal modo in cui metodi critici capziosi e settari avevano ridotto a manichini gli autori da me idolatrati, e a cadaveri le loro opere. Ne avevo fin sopra i capelli di gravità, idee generali, pose seriose. Ero annichilito dell’ engagement vetero-sartriano, neo-pasoliniano che dominava gli atenei di quegli anni.
Fu allora che m’imbattei in questo passo di Kundera: «Sospendere il giudizio morale non costituisce l’immoralità del romanzo bensì la sua morale. Una morale che si contrappone alla inveterata pratica umana che consiste nel giudicare subito e di continuo tutto e tutti, nel giudicare prima di e senza aver capito. Dal punto di vista della sapienza del romanzo, questa fervida disponibilità a giudicare è la più esecrabile sciocchezza, il peggiore di tutti i mali». Mai nessuno mi aveva parlato in modo così schietto del mestiere di romanziere che avrei voluto intraprendere. La ricetta di Kundera per liberarsi dalle tentazioni del giudizio sommario che alberga in ciascuno di noi era lo humour: «Lampo divino che rivela tutta l’ambiguità morale del mondo e la profonda incompetenza dell’uomo a giudicare gli altri». La lezione di relativismo impartitami da un tizio che avrebbe avuto ogni diritto di fare la vittima denunciando i suoi oppressori fu un vero colpo di fulmine.
Libertà romanzesche Ci sono autori i cui libri sembrano esistere allo scopo di essere sottolineati, scarabocchiati, chiosati sfrenatamente, a costo di ridurli in pezzi. Milan Kundera è tra questi: ogni capoverso, ogni paragrafo ha il potere di schiudere spazi nuovi e autosufficienti, monadi testuali con cui baloccarsi selvaggiamente.
Il bello è che ciò vale per i suoi romanzi come per i saggi: che senso ha distinguere gli uni dagli altri, se è Kundera il primo a diffidare di certe classificazioni giornalistiche? «Nella forma romanzesca – confessava al suo amico Philip Roth – c’è un’enorme libertà latente. È un errore considerare una certa struttura stereotipa come l’essenza inviolabile del romanzo».
Nella prefazione a un testo teatrale redatto sulla scorta di Jacques le fataliste di Diderot, Kundera scriveva: «Io affermo in maniera categorica che nessun romanzo degno di questo nome prende sul serio il mondo. E, d’altra parte, che cosa significherà mai “prendere sul serio il mondo”? Significa certamente: credere a ciò che il mondo vuol farci credere. Ma, da Don Chisciotte all’Ulisse, il romanzo mette in discussione proprio ciò che il mondo vuole farci credere».
Sull’arte di non prendersi sul serio Già, ma cosa vuol farci credere il mondo? Di essere per l’appunto una cosa talmente seria da esigere un trattamento adeguato. Il mondo vuole intimidirci, deprimerci, imbrattarci del suo mesto grigiore e corromperci la musa con beghe da cortile. Kundera ricorda la nausea provata un giorno nel rileggere L’idiota di Dostoevskij: «Quell’universo di gesti eccessivi, di profondità oscure, di sentimentalismo aggressivo». Perché molti credono che un romanzo debba per forza ridursi a questo? Forse perché sul genere romanzo grava un pregiudizio romantico dal quale è così difficile emanciparsi. Il guaio di molti romanzieri, sembra insinuare Kundera, è che prendono troppo sul serio sé stessi (e il mondo di cui sono espressione), e non abbastanza i romanzi che scrivono.
D’altronde, chi potrebbe mai mettere in dubbio che a tutt’oggi Kundera disponga delle credenziali biografiche per prendersi sul serio? Nato in un piccolo Paese comunista, perseguitato, prima è stato costretto a fuggire in Francia, poi ad abbandonare la lingua madre per una che maneggiava con tanta minor disinvoltura. E ciò non di meno ha scelto di vivere la propria vocazione in un modo talmente leggiadro da mettere in discussione, sbeffeggiandola, parodiandola, la sua stessa tragedia privata. Non c’è nulla che Kundera prenda seriamente se non l’arte di scrivere e di leggere romanzi. E il paradosso è tutto qui: il solo modo per prendere seriamente un romanzo è trattarlo come se fosse un gioco. Così come il solo modo per non prendere sul serio il mondo è non farsi influenzare dal suo meccanicistico tran tran, dal suo intimidatorio realismo.
Prima di passare oltre, vorrei specificare – per la reputazione di Kundera (e di riflesso per la mia) – che lui non è così sconsiderato da mettere in dubbio il genio dostoevskiano. Ha l’onestà di ammettere che Dostoevskij non è il suo tipo. Ciò che lo irrita è «il clima dei suoi libri, un universo nel quale tutto diventa sentimento – in altre parole: dove il sentimento viene innalzato al rango di valore e verità».
Non deve sorprendere allora se Kundera, per antifrasi, va a cercare i propri modelli di stile tra i romanzieri di un secolo intellettuale, sfrenato e frivolo come il Settecento: Diderot, Sterne, Fielding. Né deve stupire un tale alfiere del postmodernismo abbia un debole per i modernisti mitteleuropei come Kafka, Broch, Musil, Gombrowicz. Anch’essi, se li si guarda bene, sono dotati di quel gusto per la polifonia, l’ellisse, la mescolanza di generi e la sprezzatura che gli sono così care.
Un edonista riluttante «Se dovessi dare una definizione di me stesso direi che sono un edonista preso nella trappola di un mondo politicizzato all’estremo». A dispetto di tanti suoi colleghi occidentali a lui coevi che poterono permettersi fino alla fine di giocare impunemente con la Rivoluzione, Kundera scoprì fin troppo presto, sulla sua pelle, i danni materiali e spirituali recati alla salute artistica di uno scrittore da un contesto illiberale, se non addirittura totalitario. E non poté fare altro che ribellarvisi con i soli strumenti concessi a un letterato. E come sa anche uno scalcinato vignettista, non c’è modo più efficace dell’humour per opporsi a qualsiasi regime e a qualsivoglia ideologia. Del resto, basta allineare alcuni titoli delle sue maggiori opere narrative per capire come in Kundera humour e understatement garantiscano piena autonomia alle sue creazioni. Amori ridicoli, Lo scherzo, Il valzer degli addii, Il libro del riso e dell’oblio, L’insostenibile leggerezza dell’essere, La festa dell’insignificanza non sono solo titoli formidabili, ma una sorta di programma estetico. È normale allora che Kundera abbia raggiunto la consacrazione planetaria proprio negli anni Ottanta: chi avrebbe potuto opporre con altrettanta autorevolezza al grave vaniloquio dell’ideologia lo sberleffo dell’ironia e dell’edonismo? Per esser chiari, quando parlo di edonismo non penso mica a Reagan o ai suoi gaudenti accoliti, ma agli scrittori che hanno voluto fare dei propri romanzi giocattoli sofisticati e sublimi: da Sterne a Dickens, da Schultz a Nabokov. È così che Kundera ha eletto la jouissance raccomandata da Barthes a stile di vita e strumento di conoscenza.
Salviamo Kafka dai kafkologi Lasciate che torni ancora alla notte in cui sottolineai, scarabocchiai, chiosai I testamenti traditi. Fino ad allora mi ero imbattuto in esegeti dell’opera di Kafka che attribuivano grande importanza al martirio dello scrittore, assai meno al suo impareggiabile genio artistico. E dire che avevo sempre trovato gustoso l’aneddoto di Kafka che legge a voce alta la prima parte de Il processo di fronte ad amici sghignazzanti. Mi era sembrato di capire la ragione di quel riso, ma mi ero guardato bene dal farmene contagiare. Forse perché tutte le cose che avevo letto su Kafka (saggi, introduzioni, risvolti di copertina) sembravano volermi invitare al pianto. Con che piacere gustai la requisitoria di Kundera contro quelli che lui non senza disprezzo chiamava i kafkologi, identificando il loro capostipite in Max Brod: l’amico a cui paradossalmente dobbiamo sia la salvezza dell’opera di Kafka, sia la sua palese mistificazione postuma. «Sulle orme di Brod, la kafkologia esamina i libri di Kafka non nel più ampio contesto della storia della letteratura (…), bensì quasi esclusivamente all’interno del microcontesto biografico (…). Sulle orme di Brod, la biografia di Kafka diventa agiografia. (…). Sulle orme di Brod, la kafkologia espelle sistematicamente Kafka dal campo dell’estetica. (…). Sulle orme di Brod, la kafkologia ignora l’esistenza dell’arte moderna».
Con quale gioia sottolineai questi passi! Ecco, mi dissi, la libertà e spigliatezza con cui un grande romanziere può trattare uno dei massimi geni romanzeschi di ogni tempo.