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 2019  marzo 28 Giovedì calendario

In Danimarca uno stipendio per studiare

Birra burro e bacon sono le tre B della catena alimentare danese. Ventitré anni, il viso liscio come un panetto di burro, Gustav Ring Albrectsen è iscritto al master in produzione di birra dell’Università di Copenaghen. «Sono uscito di casa a 18 anni – racconta —, subito dopo il liceo. Ai miei non volevo chiedere nulla. Lavoravo part-time in un supermercato che vendeva attrezzature per fare la birra in casa e naturalmente ogni mese ricevevo il sussidio che lo Stato dà a tutti gli studenti danesi, l’SU». Eccola, la parola magica che sta dietro al successo di un Paese che laurea la metà dei suoi giovani (da noi sono appena un quarto). SU sta per Statens Uddannelsesstøtte, che si pronuncia più o meno così: steitoens uddennelsoestoedoe. In pratica, qui in Danimarca, non solo l’università è gratis ma i ragazzi sono addirittura pagati per studiare. Tutti, indipendentemente dal reddito. «Con i soldi pubblici più quelli che guadagno io – continua Gustav – riesco a fare quasi tutto, ma devo fare i miei conti. Mi muovo in bici, come tutti. I vestiti non mi interessano e non faccio mai regali a Natale o per il compleanno. Esco spesso la sera ma non vado in centro, mi accontento della birra al friday bar, che costa poco». Le feste del venerdì sera nei bar dei vari campus sono un’istituzione fra gli studenti – e una delle principali cause di rottura delle giovani coppie. Quelle all’A-vej bar, qui a Frederiksberg, sono leggendarie: vi si servono fiumi di birra, tanto che la Carlsberg ha deciso di premiare questo suo punto vendita con dei bicchieri speciali.
Più Stato, meno famiglia «In totale, fra sussidi e prestiti calmierati, lo Stato spende quasi 25 miliardi di corone l’anno, equivalenti a 3,3 miliardi di euro: circa l’1 per cento del Pil», spiega David Elmegaard Jensen, funzionario dell’agenzia che eroga i soldi per conto del ministero. Ogni mese uno studente danese si mette in tasca poco più di 6.000 corone (6.166), equivalenti a 825 euro. Su cui però deve pagare le tasse. Se vivi in una piccola città universitaria può anche bastarti, ma a Copenaghen gli alloggi sono carissimi e così molti si cercano un lavoro. Sicché gli studenti da un lato percepiscono il sussidio, dall’altro contribuiscono a finanziare il welfare con le imposte pagate sui loro redditi. «Lo scopo fondamentale di questo schema di aiuti è la mobilità sociale. Nessuno studente capace dev’essere costretto a rinunciare agli studi perché non ne ha i mezzi», spiega Elmegaard. Il rettore dell’Università di Copenaghen Henrik Wegener, epidemiologo di fama mondiale, è la prova provata che il sistema funziona: «In casa eravamo in cinque: quattro fratelli e mia madre, single. Ci siamo tutti laureati. Senza l’aiuto dello Stato non ce l’avremmo mai fatta. Io devo tutto al welfare».
Qui in Danimarca, se sei un ragazzo sveglio e volonteroso, hai molte più possibilità di fare il salto di classe che da noi. Come Mikkel Nielsen, 22 anni, spalle larghe. In tutti i sensi. Ha iniziato a lavorare a 13 anni, consegnando riviste porta a porta, poi ha fatto l’istruttore di nuoto e dopo il liceo ha lavorato un anno intero per mettere da parte i soldi per fare l’università. Adesso è uno dei rappresentanti degli studenti della Copenhagen Business School. Stessa storia per Mike Gudbergsen, 24 anni, primo anno del master in Scienze politiche all’Università di Copenaghen: si divide fra studio, lavoro e impegno politico. I suoi gestiscono un maneggio a 30 chilometri dalla capitale. «Senza l’SU – dice – non avrei potuto fare l’università. La mia famiglia non aveva abbastanza soldi. Mio fratello e io siamo i primi a esserci laureati». Anche Mike ha lavorato per un anno intero fra liceo e università.
Ed ecco l’altro segreto del welfare danese. Visto da fuori può sembrare un sistema assistenziale, ma in realtà è tutto l’opposto: un incentivo a uscire di casa presto e imparare a cavarsela da sé, tant’è che per quei pochi che non se ne vanno subito l’assegno di Stato è molto più striminzito: fra i 125 e i 350 euro a seconda del reddito familiare. Lo spiega bene Gøsta Esping-Andersen, autore di un testo di riferimento sul welfare (The three worlds of welfare capitalism): «Il welfare danese ha come scopo di sgravare la famiglia dagli obblighi della protezione sociale, si tratti di bambini, vecchi o giovani. Da noi i ragazzi vogliono diventare indipendenti molto presto e, grazie all’aiuto dello Stato, possono farlo anche se provengono da una famiglia a basso reddito». A 18-19 anni sono già fuori di casa ed è come se, ricchi e poveri, ripartissero (quasi) dallo stesso nastro di partenza.
Drude Emilie Ehn, 27 anni, è ricercatrice presso il dipartimento di Design dei servizi dell’Università di Aalborg, campus di Copenaghen. Lunghi capelli biondi, frangia sbarazzina, racconta: «Dopo il diploma ho lavorato un anno per mettere insieme i soldi per un lungo viaggio in Asia. Tornata a casa, mi sono iscritta al corso di laurea in Servizi sociali e ho iniziato a lavorare per mantenermi. Asili di giorno, bar di sera. E intanto studiavo. E facevo volontariato. Nel 2015 è esplosa la crisi dei migranti e mentre il governo liberal-conservatore, con l’appoggio esterno dell’estrema destra xenofoba e il voto favorevole anche dei socialdemocratici, votava leggi come quella sul sequestro preventivo di beni e gioielli ai richiedenti asilo, io mi davo da fare per dare una mano».
Società aperta, società chiusaSeduto alla scrivania della sua luminosissima casa in pieno centro, Jens Christian Grøndahl, uno degli scrittori più letti fuori dai confini danesi, amatissimo in Francia, incomprensibilmente ancora poco noto in Italia (l’ultimo suo romanzo pubblicato da Feltrinelli si intitola Spesso sono felice), prova a spiegare il segreto di una società dove tutti pagano le tasse – e che tasse: l’ultimo scaglione sfiora il 56% (in Italia è il 43%) – e apparentemente sono felici di farlo. «I danesi appartengono in maggioranza a un’estesissima classe media. Come diceva Nicolaj Grundtvig – il pedagogista che a metà dell’800 ha istituito le folk high school, le scuole popolari dove ancora oggi i ragazzi danesi, finito il liceo, vanno a imparare a stare con gli altri – in Danimarca pochi hanno troppo e ancora meno hanno troppo poco». Il welfare danese funziona perché si applica a una società piccola e molto omogenea, dove l’indice Gini delle diseguaglianze è minimo. «Qui tutti danno tanto, ma ricevono anche tanto (anche i più benestanti che altrimenti sarebbero disincentivati dal pagare tasse così alte, come sottolinea l’economista Carl-Johan Lars Dalgaard, ndr). E soprattutto si fidano del prossimo e delle istituzioni. Il problema, semmai, è che la nostra è una società molto aperta verso l’interno, ma chiusa verso l’esterno», dice Grøndahl che, insieme a Claudio Magris, Milan Kundera e un’altra dozzina di intellettuali europei, ha firmato l’appello di Bernard-Henri Lévy per salvare l’Europa dai populismi.
Di recente, anche gli studenti universitari stranieri sono finiti nel mirino del governo di centrodestra. A partire dal 2013, infatti, in seguito a una sentenza della Corte di giustizia europea, un giovane comunitario che venga a fare l’università in Danimarca ha diritto a percepire lo stesso assegno di Stato dei suoi colleghi danesi, purché lavori almeno 10-12 ore alla settimana. È il caso di Silvia Prandini, originaria di Sabbioneta (Mantova) e, a soli 20 anni, già cittadina del mondo. «Mentre facevo il liceo, ho scelto di andare un anno a Las Vegas. Tornata a casa, i miei compagni mi sembravano rimasti indietro. E così mi sono messa a cercare su Internet dove potevo andare. Sono sbarcata a Copenaghen a settembre e a dicembre avevo già trovato lavoro da Starbucks, all’aeroporto. Adesso sono al secondo anno di Information management alla CBS. I soldi se ne vanno quasi tutti per l’affitto ma riesco comunque a non chiedere niente ai miei».
La polemica sui turisti del welfare Silvia è una degli oltre 20 mila studenti europei che ogni anno percepiscono il sussidio. Spesa totale: poco meno di un miliardo di corone (130 milioni di euro) se si considerano anche i residenti da almeno 5 anni (ai quali non è richiesto di lavorare), la metà se si calcolano solo gli studenti-lavoratori arrivati più di recente. Il problema è che dopo la laurea solo un terzo di questi giovani talenti resta in Danimarca. In un mercato globalizzato la mobilità studentesca è un fatto normale. Ma qui s’intreccia con le polemiche sul cosiddetto welfare tourism: il sospetto – «soprattutto nei confronti dei Paesi dell’Est», fa notare Drude – è che vogliano solo approfittare del welfare danese. Ecco perché ad agosto il governo di centrodestra, con l’attivo contributo del Partito danese del popolo (questa volta i socialdemocratici hanno votato contro), ha imposto alle università di tagliare 1.000-1.200 posti internazionali. Non potendo discriminare apertamente gli europei, alle università è stato chiesto vuoi di tagliare alcuni corsi in inglese vuoi di rinazionalizzarli, tornando a insegnare in danese. Spiega Henrik Dahl, parlamentare dell’Alleanza liberale, partito di governo: «Una delle ragioni per cui il nostro sistema è così generoso con gli studenti è perché noi ci vediamo come un Paese senza risorse naturali. Per questo investiamo tanto sul capitale umano. Ma non possiamo pagare gli studi anche al resto dell’Europa. E soprattutto non possiamo chiedere ai nostri concittadini di farlo».
Studenti, professori, sindacati e industriali, però, non la pensano così. «Siamo un Paese piccolo che ha bisogno di attrarre manodopera altamente qualificata. Mai visto una legge che abbia messo tutti così d’accordo, nel senso che siamo tutti contrari», dice Julian Lo Curlo, 24 anni, italo-argentino e membro del direttivo dell’Unione nazionale degli studenti. La Società danese degli ingegneri ha lanciato l’allarme: entro il 2025 potrebbero mancare 15 mila ingegneri e scienziati naturali. Jesper Langergaard, direttore di Universities Denmark, rincara la dose: «Invece di fissarci su quanto ci costano gli studenti stranieri, dovremmo concentrarci su come trattenerne di più. Quel trenta per cento che resta a lavorare qui rappresenta, già adesso, un affare per noi. Per portare alla laurea un danese dobbiamo mantenerlo fin dalla culla. Al confronto i due anni di master di uno studente europeo – cresciuto a spese di un altro Paese – costano come un caffè solubile. Ma spiegarlo agli elettori danesi è difficile». E quest’anno, a giugno, si vota.