Il trascorrere degli anni non è un condizionamento per un linguaggio così legato al corpo come il suo?
«A cinquant’anni, certo, le cose non sono facili come a venti. Ma tutto dipende dagli obiettivi su cui si focalizza. Oggi sei tu a dar forma al presente. Il mio rapporto col tempo si è modificato. Vivo la libertà dell’oggi, non la paura del domani».
Nel 2007 aveva chiuso la sua favolosa carriera internazionale celebrandola con svariati addii.
«All’epoca l’Alessandra della giovinezza era finita. Carmen, Giulietta, Manon… Le mie eroine non mi appartenevano più. Mi perseguitava il timore del confronto con una me più giovane. Ho avuto una fase di lutto, poi un’altra di sollievo. Ma dopo un po’ mi sono sentita spenta, persa. La mia essenza d’individuo era rimasta imprigionata in una stanza».
Con McGregor ha ritrovato quella stanza?
«Wayne ha un modo di lavorare unico, meraviglioso. Altri coreografi compongono all’interno di una struttura predefinita. Invece Wayne dà dei movimenti e io li interpreto tessendoli in un continuum declinato al momento, da cui lui desume una forma. Sa cogliere l’emozione del gesto nell’attimo in cui si genera».
Com’è nato lo spettacolo?
«Quando McGregor me lo propose ero esterrefatta, conoscendo il suo uso del corpo tecnicamente spinto. Gli dissi: Wayne, sono una cinquantenne! Rispose: io ho bisogno dello spirito di Virginia e tu puoi darmelo. Mi ha insegnato un’astrazione che nasce da dimensioni emotive profonde, e io credo di avergli comunicato un livello “sottile” del danzare. Dice di aver imparato da me l’understatement e la capacità di togliere dalla danza il superfluo».
Difficoltà sul piano tecnico?
«In principio l’approccio di Wayne alla creazione fa “sballare” un danzatore classico. Il suo vocabolario rompe gli equilibri e il tipo di coordinamento cui siamo abituati. Ma è quest’aspetto destabilizzante a stimolarmi: con Wayne sento di toccare zone ignote. E adoro la capacità della sua arte di conquistare i giovani».
Il balletto sulla Woolf segue un percorso biografico?
«Non narra fatti, ma emozioni scaturite dalla prosa di Virginia e dalla sua vita. Il primo atto è dedicato a Mrs Dalloway, il secondo a Orlando e il terzo a Le onde. Niente è descritto. All’inizio io sono un po’ Virginia e un po’ Mrs Dalloway, e tutto è come suggerito. In chiusura la morte della Woolf avviene sottotraccia: non è mai “spiegata” allo spettatore, che solo alla fine realizza l’avvenuto suicidio».
Cosa significa per lei tornare alla Scala, dove nacque artisticamente prima di trionfare a Londra e a New York?
«La Scala era il mio sogno di bambina, venerato come un tempio, un culto che ho mantenuto sempre, anche se ci sono stati alti e bassi nel mio rapporto con un teatro che era sindacalizzato e soffocante nei primi anni Settanta, quando lasciai Milano per Londra. Poi, dal 1992 al 2007, avrei ripreso a danzarvi come “prima ballerina assoluta”. Adesso è esaltante tornarci con un pezzo che mi sta a cuore come Woolf Works».