Avvenire, 28 marzo 2019
La battaglia di Elio Germano in teatro
Non c’è spazio, almeno all’inizio, per il dissenso. Ti siedi all’Ambra Jovinelli, per assistere a La mia battaglia, lo spettacolo in scena a Roma per poco meno di una settimana, che Elio Germano dirige e che ha scritto con Chiara Lagani (bravissima drammaturga e co-fondatrice a Ravenna della compagnia e laboratorio Fanny & Alexander). La mia battaglia è fuori abbonamento teatrale, è già sold out in poche ore dall’annuncio delle date e ha girato, da più di un anno, per alcuni palcoscenici italiani prima di essere messa in scena all’Ambra Jovinelli. Le luci, in sala, rimangono accese anche quando un attore (Elio Germano) attraversa il corridoio che divide le file delle poltroncine degli spettatori. È vestito in jeans, camicia e maglione. Come uno del pubblico. Anzi come uno che non ha un ruolo da interpretare. È uno di noi, uno della strada.
Inizia il suo monologo. Un leggìo sul palco, una bottiglia di acqua ai piedi di uno sgabello. La scena è scarna. Lui parla al pubblico, si interessa e chiede i nomi degli spettatori e li ringrazia. Per la presenza, per aver lasciato il comodo divano e annuncia che lo spettacolo durerà un’ora. Così, dice, le persone non si affaticano, sanno che saranno sedute su quella poltrona rossa non per molto e che presto potranno ritornare a casa. Il telefonino rimane disconnesso per chi vuole, perché lui, unico interprete per quasi tutta la scena, ti guarda in faccia, ti coinvolge, ti pone domande, chiede quali siano le tue reali capacità, conoscenze, competenze.Che potresti, finalmente, mettere al servizio della comunità soprattutto se dovesse capitare nella vita di essere vittima di un naufragio. Chi sa cucinare? Chi è un medico, chi un architetto, chi un falegname? Chi sa accendere il fuoco? Chi pesca? Chi caccia? Chi riconosce i funghi? Chi non ha paura a cucinare per tutti gli spettatori? Il pubblico ci sta, risponde, si racconta e si sente interpellato. Non può non approvare l’inquadraturasociale della nostra contemporaneità: siamo schiavi dei selfie e non ci rendiamo conto delle espressioni che formano il nostro volto, miriamo a piacere più che a valere per costruire il nostro successo, puntiamo ai nostri obiettivi personali e fuggiamo le nostre responsabilità. Il buon senso, il sensocomune è necessariamente implicato. Le persone ascoltano attente, percepiscono una sottile e forse ingannevole retorica, registrano i dati. Votano anche, come ogni democraziaimpone. Si sentono interpellate dall’autorevolezza del contenuto del discorso. Il nostro attore è convincente, gesticola convinto, pungola, stimola, incita. Forse troppo. La sua voce si scalda sempre di più e qualcosa piano piano non convince. Si percepisce un continuo uso dell’esortazione, di quell’enfasi acritica che edifica quel consenso, quel sapere sicuro e popolare, quel tramandare idee didattiche. E lentamente nasce un’inquietudine, una paura, un dubbio. Che fine avranno queste parole se depositano la loro veemenza dentro di noi? Dove saremo condotti se il nostro pensiero, rafforzato da un possibile legame comunitario, guarda la realtà, enuclea i problemi, dissotterra l’ascia e punta il dito con la scusa di un futuromigliore? Nell’inizio de La mia battaglial’identificazione con il personaggio, unico protagonista della scena, è totale. Non sai disgiungere il personaggio dalla persona in carne e ossa. Credi alle sue parole, ai suoi ragionamenti, alle sue affermazioni e non ti senti tradito, inutilmente persuaso. Eppure piano piano (e questo nasce dalla potenza del testo e conferma il talento di Elio Germano) lo spettatore percepisce una distanza. Sparisce l’identificazione e la gola si sente soffocare. Il pubblico reagisce, così sembra, lui è ormai salito sul palco, le luci in sala sono spente. Rimangono quelle che illuminano il palco. Le emozioni si confondono, si indirizzano alla nostra interiorità e nasce quello che dovrebbe essere la forza di ogni arte. Gettare luce su di noi, su chi stiamo diventando, su chi vogliamo essere. Dove nasce l’affidabilità delle nostre convinzioni, delle nostre idee, dei nostri consensi?
La mia battaglia è uno spettacolo necessario e insolito, che disarma e illumina quella parte oscura che c’è dentro e fuori di noi. Che sa costruire, confondendo lo spettatore, il sentimento dell’approvazione e il cuore della persuasione. E che dà forma ai nostri fantasmi sempre più contemporanei.