Libero, 28 marzo 2019
Le prigioni italiane guidate dalle donne
Più si sale, nella gerarchia dei poteri e delle responsabilità, più sembra che le donne risentano dell’altitudine, finiscono invischiate in una strana forma di rarefazione, come se il respiro andasse in affanno e i muscoli si sfiancassero: così le signore si fermano, invariabilmente, sotto la soglia maschile. A meno che non si parli di carceri. Già è notevole che, fenomeno ormai conclamato da anni, le donne tengano in piedi la pubblica amministrazione, dove sono il 56,6% del totale degli impiegati, contro il 43,4% degli uomini. Ma soprattutto, al contrario di ogni aspettativa, prevalgono nel settore più difficile della Pa: la carriera penitenziaria (ovvero, coloro che si occupano di garantire la sicurezza delle carceri, l’esecuzione delle pene detentive e vigilano sul trattamento dei detenuti). Su 321 impiegati, infatti, 220 sono donne, il 69 per cento. Di queste, 271 svolgono incarichi dirigenziali. Ma non solo: sono 89 le donne a capo di un istituto penitenziario, contro 56 direttori uomini. C’è per esempio Manuela Federico, comandante della Polizia Penitenziaria del carcere di San Vittore a Milano, c’è Nadia Cersosimo, direttrice del carcere di Paliano (Frosinone), l’unico in Italia a ospitare i collaboratori di giustizia, c’è Carlotta Giaquinto, tre figli di 23, 18 e 12 anni, ora direttrice del carcere di Pozzuoli. E poi ce ne sono altre 87.
ULTIMO CONCORSO
Il dato è ancora più eclatante perché, spiega il deputato Pd Cosimo Maria Ferri, componente della Commissione Giustizia della Camera, «l’ultimo concorso risale al 1997: se oggi ce ne fosse uno nuovo, il numero aumenterebbe sicuramente. Il numero di donne che vincono i concorsi pubblici, infatti, è sempre maggiore: in magistratura sono ormai il 53%. Nella mia esperienza di magistrato e sottosegretario alla Giustizia», racconta Ferri, «ho visitato molti istituti penitenziari e ho sempre avuto l’impressione di grande autorevolezza da parte delle direttrici nel gestire ambienti che potrebbero sembrare solo maschili». Nella classifica dei mestieri nella Pa in cui le donne prevalgono, le carceri arrivano seconde, perché al primo posto è inamovibile la scuola: le insegnanti costituiscono il 79 per cento dei docenti. Il settore dell’istruzione, inoltre, è anche quello che occupa più personale femminile, con 1.106.180 donne. Al terzo posto ci sono le impiegate nel servizio sanitario nazionale, su 648.663 contrattualizzati 428.389 è donna (66%). Seguono le lavoratrici delle Regioni a statuto speciale (54.501), che costituiscono il 60%, e quelle impegnate nella carriera prefettizia (700 ovvero il 58%). Su 22 ambiti esaminati, la presenza maschile è maggiore di quella femminile solo in 10, mentre negli altri 12 le donne superano il 50 per cento. Infine, stando allo studio di ConvenzionIstituzioni.it, che ha analizzato i dati della Ragioneria Generale dello Stato (2016), le donne presentano anche un’età media più bassa rispetto ai colleghi maschi. «Bisogna essere contente», commenta Anna Simone, professoressa di sociologia giuridica della devianza e del mutamento sociale all’università Roma Tre, «del fatto che la femminilizzazione del lavoro stia procedendo bene (ovvero la maggiore presenza delle donne nei luoghi di lavoro, ndr), nonostante l’evidente divario tra il Nord e il Sud del Paese. Tuttavia», prosegue, «non è un dato rilevante: quello che conta, per accorciare davvero i margini della differenza di genere, è capire il desiderio di lavoro femminile, che non ha niente a che vedere con l’eguaglianza sostanziale, né con l’emancipazione. Spesso, le donne scelgono la pubblica amministrazione perché è un tipo di lavoro che si concilia con la vita familiare. Può essere positivo, certo, ma anche negativo, perché significa fare più lavori insieme: fuori e dentro casa».
L’INSUCCESSO DEL WALFARE
La difficoltà, spiega ancora Anna Simone, è interpretare il desiderio, per sua natura impossibile da quantificare. Ma un dato parla da solo: le giovani lavoratrici precarie che rinunciano alla maternità per le difficoltà che riscontrano nell’incastrare famiglia e lavoro sono in aumento. «Il walfare si sta sfaldando», commenta la professoressa, o quanto meno, non sta svolgendo il proprio lavoro. Quando nasce un figlio, infatti, il 20 per cento delle donne esce dal mercato del lavoro. E non ci rientra più. Inoltre, dicevamo all’inizio, in cima alla piramide gerarchica, gli uomini prevalgono di molto: si contano solo sei rettori donna contro 76 uomini, mille sindaci donna contro settemila uomini, cinque ministre accanto ai tredici ministri, 5mila amministratrici delegate contro 17mila amministratori. Infine, l’occupazione femminile, in Italia, è ferma al 49 per cento (al Sud, la disoccupazione “rosa” supera il 70%), contro il 68,5% dell’occupazione maschile; le donne siano quasi due milioni in più degli uomini: 31,05 contro 29, 42 milioni. Quando la ricerca va nel dettaglio, i numeri rivelano contrasti: le donne in età lavorativa, da oltre un trentennio, hanno un livello di istruzione superiore a quello dei coetanei uomini, le laureate sono il 59 per cento contro il 41 dei laureati, il voto finale è di due punti superiore a quello dei loro vicini di banco. A sei anni dalla laurea, però il 91 per cento dei maschi risulta occupato, contro l’84 per cento delle donne. E quando nasce un figlio, come si è detto, il 20 per cento delle donne decide di rimane a casa.
QUOTE ROSA
C’è allora ancora bisogno delle “quote rosa”? Per loro natura, però, sono un’arma a doppio taglio: nel 2011 entrò in vigore la legge Mosca-Golfo che impartiva l’obbligo, per le aziende pubbliche e per quelle quotate in borsa, di riservare un terzo dei posti di vertice alle donne (la legge è sperimentale e scadrà nel 2020). Se da un lato facilita l’accesso al lavoro per il genere femminile, dall’altro penalizza l’uguaglianza: «Dovremmo abbandonare la logica della tutela, della vittimizzazione e della rivendicazione», spiega Anna Simone, «Anzi, il fatto che i nuovi movimenti femministi stiano rinascendo proprio sulla base della rivendicazione di diritti sociali è preoccupante, perché è un segnale che anziché andare avanti stiamo tornando indietro, alle sufraggette di metà Ottocento». «E invece», aggiunge, «dovremmo smettere di chiedere, la libertà femminile comporta autorevolezza: non siamo una minoranza, è un’idea falsata all’origine, visto che siamo la maggioranza della popolazione».