il Giornale, 28 marzo 2019
A proposito dello stato vegetativo
Tutti ricorderete il caso di Terri Schiavo: negli anni Novanta suscitò l’interesse dell’opinione pubblica mondiale e scatenò i movimenti per il diritto alla vita, e il marito dovette intraprendere anni di battaglie legali per poter staccare la spina a questa donna in stato vegetativo, cosa che avvenne nel 1998. Tuttavia l’autopsia rivelò che le lesioni subite da Terri erano tali da escludere qualsiasi forma di coscienza.
Quella di Terri Schiavo purtroppo non è una situazione unica, e solo in Italia le persone in stato vegetativo sono circa tremila. Ma sono tutte incoscienti? Sono veramente come vegetali? Non tutte, e lo spiega bene il neuroscienziato Adrian Owen nel suo libro Nella zona grigia (Mondadori). Owen si è dedicato molto a questi casi, soprattutto a quelli dove ha rintracciato una possibilità di coscienza.
Pensateci, non c’è incubo peggiore da immaginare: sentite tutto, comprendete tutto, ma non potete in alcun modo comunicarlo con l’esterno. Talvolta invece qualcuno è in stato vegetativo senza nessuna attività cerebrale ma le persone che lo accudiscono tendono a fraintendere segnali che sono solo riflessi e contrazioni nervose involontarie, come per esempio un sorriso.
Oggi però la tecnologia ci viene in aiuto, e è possibile avere un’idea se la coscienza di una persona è presente, oppure se è semplicemente un corpo. Grazie alla PET e alla risonanza magnetica funzionale per immagini (fMRI) riusciamo a vedere quali aree del cervello si attivano con determinate sollecitazioni, e si può monitorare l’attività cerebrale secondo per secondo. Le varie aree del cervello di chi è ancora vivo, non solo biologicamente, ma presente a se stesso, si accendono come un albero di Natale. Per cui riusciamo a capire dentro quel corpo immobile c’è imprigionata una persona che cerca disperatamente di parlare con noi, oppure se è solo un corpo.
Ancora non sappiamo tutto sul nostro cervello (neppure sul cervello degli altri animali), il nostro organo più complesso, ma sappiamo che tutto ciò che pensiamo lo dobbiamo esclusivamente al nostro cervello. Finire nella zona grigia è orribile, ma basta molto meno per rendersi conto di quanto tutto ciò che diamo per scontato avvenga grazie alla meravigliosa macchina che abbiamo nella testa.
Una minima lesione al giro fusiforme, per esempio, ci porterà a non riconoscere più i volti, la cosiddetta prosopagnosia. Scientificamente resta valido il pensiero di Cartesio, Cogito ergo sum, ma non la sua separazione tra anima e corpo (la cui versione moderna è quella tra mente e cervello).
Come scrive Owen: «Se il cuore non funziona più, possiamo continuare a vivere con l’aiuto delle macchine. Un paziente con un cuore artificiale continua a essere la stessa persona di prima. Se il fegato o i reni non funzionano più possiamo sopravvivere, mantenendo integra la nostra personalità, in attesa di un trapianto che ci permetta di vivere più o meno come prima». Idem per braccia, gambe, occhi. «Ma se manca il cervello, diventiamo soltanto un ricordo per gli altri. Non siamo neppure l’ombra di ciò che eravamo. Noi esseri umani siamo il nostro cervello». Come scrisse anche il premio Nobel Francis Crick, fisico e biologo molecolare: «Tu, con le tue gioie, i tuoi ricordi e le tue ambizioni, il tuo senso di identità e il tuo libero arbitrio, non sei altro che la risultante di una miriade di cellule nervose e delle molecole in esse contenute». Tutto ciò è meraviglioso. Ma anche terribile.