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 2019  marzo 28 Giovedì calendario

Battisiti scrive bene

Dopo l’arresto dell’ex terrorista abbiamo ripreso in mano il suo ultimo romanzo memoir, “Faccia al muro”. Dove si scopre che... Così come gli scaffali sono pieni di volumi scritti da chi non ne ha mai letto uno, i libri SU Cesare Battisti sono più dei libri DI Cesare Battisti. Una pubblicistica vastissima che rischia di far impallidire la biblioteca di Alessandria*, o quella prodotta da Bruno Vespa ogni maledetto Natale. La quale com’è noto, se messa in fila a guisa di domino, cingerebbe per due volte l’Equatore e parte del Tropico del Capricorno. I volumi italiani che riguardano le vicende del trofeo di guerra salviniano prediligono le ipotesi colpevoliste, che Battisti ha tramutato in tesi con la confessione dei giorni scorsi. Questo perché la narrativa alla fine è come la mortadella vegana: va incontro alle esigenze di qualunque consumatore. Dunque il vetriolo di Pansa o Cruciani sul comunista di turno si porta benissimo e ravviva il tintinnio alle casse, altrimenti riservato in gran parte all’acquisto di Moleskine, tomi scolastici o auricolari bluetooth. Curiosamente, i libri francofoni propendono invece per l’innocentismo, come l’immaginifico La Vérité sur Cesare Battisti, nel quale la scrittrice Fred Vargas, a. D. 2004, prometteva un approccio voltairiano alla vicenda, pur senza citare la celebre frase attribuita al noto filosofo, quella sulla vita da dare per permettere al proprio avversario di esprimersi. Anche perché pare che Battisti, di vite, fosse propenso a conferire quelle altrui. Il romanticismo d’Oltralpe per cui il brigatismo era la prosecuzione della Resistenza con altri mezzi, come se sparare a Guido Rossa e ai repubblichini fosse la stessa cosa, la grandeur intellettuale per cui il sangue degli altri, più che dei vinti, permetteva di travestirsi da eroi del libero pensiero restando comodamente seduti in una brasserie della Rive Gauche, l’imperdonabile sciovinismo a metà tra Mitterrand e Plastic Bertrand secondo cui una canzone di Paolo Conte e un volantino di rivendicazione stampato col ciclostile brillavano dello stesso fascino esotico, hanno permesso al Nostro di sfornare negli anni fior di bestseller, ristampati in Italia con una certa pudicizia alla voce “letteratura straniera”. Ma come scrive Cesare Battisti? Se lo sapete, probabilmente siete lui. Se non lo sapete, siete il sottoscritto. Che fino a ieri pomeriggio non aveva mai incrociato neppure per un attimo le vicende del fuggiasco, avendogli sempre preferito il Fuggiasco vero, cioè Massimo Carlotto, uno che peraltro era innocente, il cui Arrivederci amore ciao resta, tra gli altri, un romanzo di (de)formazione che neppure una terribile trasposizione cinematografica riuscì distruggere del tutto. Per comprendere meglio il Battisti scrittore, ho dunque investito alcuni euro nell’acquisto del suo ultimo romanzo: Faccia al muro, scritto nel 2012, quando ancora si faceva fotografare brandendo cocktail ad uso e consumo dei feltridi che avrebbero usato la sua faccia irridente per accomunarla ad altri pericolosi comunisti tipo Gentiloni o Berlinguer. L’obiettivo era di farne una recensione satirica. Sarebbe stato facile. Avevo già in canna qualcosa sull’assassinio (anche) della lingua italiana, o della fantasia, o della decenza. Purtroppo scrive più che bene. Lasciamo perdere che il libro viaggia su un doppio binario e che uno degli scambi porta in galera, proprio dove Battisti sta ora, e che dunque la privazione di libertà, ancorché di una persona che ha privato altri uomini della vita, difficilmente può essere oggetto di dileggio. Rimuoviamo il fatto che il protagonista ometta i motivi della fuga in Brasile, impegnato com’è in un’intensa attività erotico/sentimentale che ne ristora le membra (o altra declinazione di genere) per sfuggire all’alito degli inseguitori. Accantoniamo il mischione di autoanalisi da cui emerge che sì, in una vita precedente era cattivo ma adesso è il meno freak tra i compagni di cella. Teniamo in un angolo anche la lingua usata, il francese, come se tra il Battisti che vive e Augusto, il protagonista, si stagliasse un altro tizio che non ha un prima, vive un durante complesso, e sa, quasi sollecita, che il suo dopo sia dietro le sbarre. È che il libro si fa proprio leggere. Ricama con grazia grandguignolesca gli ospiti del carcere di Papuda, soppalca l’inevitabile trama noir non senza qualche tramezzo di ironia, descrive un altrove fittizio, che racconta un altrove reale, e di fatto chiede il perdono che mai avrà. Di più: sembra una serie fatta e finita. Fossi Netflix, investirei due centesimi, anzi: due reais, che l’autore avrebbe poi agio di investire cercando di riversarli alle sue vittime. Alla ricerca com’è, parrebbe, di qualcosa che somigli, anche da molto lontano, a un lieto fine. *Nota per Toninelli: d’Egitto, non Alessandria e basta. La polenta dolce non c’entra.