il Fatto Quotidiano, 27 marzo 2019
In questi ovili Riina ordinò: “Uccidiamo il giudice Falcone”
Totò Riina (1930-2017), mafioso, è nato a Corleone. Giovanni Monachino, mafioso, è nato a Pietraperzia.
L’ultimo boss della fazione filo-stragista dei Corleonesi di Totò Riina ancora operativo e regnante sul proprio territorio, Giovanni Monachino, è stato arrestato ieri, ventisette anni dopo esser stato il “vivandiere” del capo dei capi. Monachino, 56 anni, mise a disposizione dei vertici della Cupola i luoghi dei summit che tra 1991 e 1992 deliberarono anche la condanna a morte di Giovanni Falcone con la strage di Capaci. A quelle maledette riunioni della “commissione regionale” di Cosa nostra, nel cuore della Sicilia più aspra, parteciparono, oltre a Riina, Bernardo Provenzano, Giuseppe Madonia e Benedetto Santapaola, i più feroci tra i “padrini” della mafia siciliana sull’asse Palermo-Catania. Durante l’ultimo summit, febbraio ’92, fu accolta la decisione di Riina: “Uccidiamo Falcone”. Incontri avvenuti in sperduti ovili della “famiglia” di Giovanni Monachino, messi al setaccio nelle scorse ore, che anche in questi anni sono stati sede di riunioni, come quella che ha deciso un omicidio divenuto snodo fondamentale nelle indagini. A Pietraperzia c’era una delle cinque cosche storiche della provincia di Enna: è stata azzerata dal Ros dei carabinieri con i 21 arresti dell’operazione Kaulonia, coordinata dal sostituto procuratore di Caltanissetta Pasquale Pacifico.
I legami con i Corleonesi e il controllo delle elezioni
I boss di Pietraperzia sono legati a doppio filo coi Santapaola: agli atti il video di un incontro dei due gruppi nel 2016 a Catania. E “amici fidati” dei Riina, come da conversazioni di Gaetano, fratello di Totò, che si leggono nell’ordinanza di arresto del 2011. Senza pausa alcuna dai tempi delle Stragi hanno svolto il ruolo di anti-Stato con forte radicamento territoriale nella zona di Enna. Così Giovanni Monachino finisce dietro le sbarre insieme col fratello, Vincenzo, 52 anni, detto “il dottore” o “il dentista” per il suo impiego in uno studio odontotecnico, e con gli altri diciannove uomini di Cosa nostra appartenenti alla cosca. Associazione a delinquere di stampo mafioso, il capo d’accusa, “per commettere delitti di ogni genere – si legge nell’ordinanza d’arresto del gip David Salvucci –: omicidi, estorsioni, usura, traffico di sostanze stupefacenti, rapine, detenzione e porto d’armi”. Non c’era, fino a ieri, quasi nessuna attività, attorno a Enna, che non ricevesse l’attenzione della famiglia di Pietraperzia, impegnata “nell’acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o, comunque, il controllo di attività economiche quali forniture per la realizzazione di opere pubbliche e private, concessioni, appalti di opere pubbliche, nonché per realizzare illeciti vantaggi di vario genere e per procurare voti in occasioni di consultazioni elettorali”. E ancora riscossione del pizzo e sostegno materiale alle famiglie dei carcerati affiliati, affari direttamente curati dallo stesso Giovanni Monachino per affermare la presenza del capo e il potere sul territorio. Crimini decisi e preparati nei quartier generali della cosca: gli ovili. Disseminati per queste campagne, raggiungibili solo dopo camminate di chilometri per strade impervie, sono proprio queste stalle i luoghi in cui i boss fuggono da orecchie indiscrete e da possibili sorveglianze, gli stessi casolari dei summit delle Stragi.
Così trenta “gazzelle” dell’Arma hanno proceduto incolonnate nella notte tra lunedì e martedì sulla Statale 560 per raggiungere Pietraperzia, paesino di settemila anime arroccato in mezzo a un nulla di campagne e rocce, divenute sedi, nel corso degli anni, anche di soggiorni per latitanti. Tra trazzère e masserie ben ammucciate, nascoste a dovere, sempre qui in provincia di Enna, fu trovato nel 2007 Daniele Emmanuello, in fuga da undici anni, in quel momento considerato il secondo più pericoloso della lista in Sicilia dopo Matteo Messina Denaro: le cose non andarono per il verso giusto e la cattura si trasformò in una sparatoria con due proiettili della polizia che colpirono in testa il mammasantissima lasciandolo in un lago di sangue sul terriccio. E chissà quanti altri capi mafia in fuga dalla giustizia hanno trovato o stanno trovando rifugio in un angolo di questo territorio inaccessibile e severo. Non a caso tra agosto 1991 e febbraio 1992, tra un summit e l’altro negli ovili della famiglia di Pietraperzia, proprio Riina e Provenzano soggiornarono da queste parti per diverso tempo, come ha rivelato il pentito Leonardo Messina nel corso del processo ’ndrangheta stragista di Reggio Calabria. C’è anche chi sussurra a bassa voce che il fantasma dello stesso Messina Denaro, latitante dal 1993, sia apparso in alcune occasioni nel buco nero di Enna, teatro di una Cosa nostra arcaica con coppola e lupara.
Elicottero e sirene, ma le luci restano spente: tutto serrato
L’operazione Kaulonia è filata liscia. I Monachino sono stati buttati giù dal letto alle tre dai cento carabinieri del Ros e dei Cacciatori mobilitati, con un elicottero sopra le loro teste. Nonostante il trambusto non una luce si è accesa dalle finestre serrate di case e palazzi: Pietraperzia è “piovra” vecchio stampo, qui nessuno vuole vedere e nessuno vuole sentire. Al Ros e alla Dda di Caltanissetta per venirne a capo sono serviti due anni di indagini a tappeto con cimici disseminate nei posti più impensabili. È nell’ovile di Vincenzo Di Calogero, uno degli arrestati, che viene deliberato l’omicidio di Filippo Marchì del rivale clan Saitta: trivellato con un fucile calibro 12 e una pistola 7,56 il 16 luglio 2017 a Barrafranca da Calogero Bonfirraro e Angelo Di Dio, entrambi tra gli arrestati. Ma proprio questo spietato assassinio è stato lo scacco matto di Dda e Ros.
Per il resto, infatti, niente telefonate, niente discorsi espliciti, ma solo un linguaggio in codice da allevatori di pecore, rivelato agli inquirenti da Gaetano Curatolo, detto “Tano Stidda”, un altro degli arrestati, mentre cerca di istruire un sodale proprio sulle modalità di comunicazione, finendo per tradirsi perché captato da una microspia: “Per telefono non devi parlare! Noi parliamo sempre di pecore, di agnelli, di cavalli, di giumente… se io voglio parlare con lui… noi dobbiamo parlare di pecore… noi capiamo tutte cose”.