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 2019  marzo 27 Mercoledì calendario

Intervista a Dario Argento

Il maestro dell’orrore vive in una casa romana, luminosa, i muri bianchi e il profumo delle piante che sale dal cortile. «Mi sono trasferito tre anni fa. Avevo una casa a tre piani, poi le mie figlie sono cresciute e se ne sono andate, mia madre non ha voluto lasciare il suo appartamento e così eccomi qui». Indica una scrivania «da regista», zeppa di appunti e ritagli, vicino a un televisore enorme. A terra e sugli scaffali premi, statue etniche, vasi antichi, oggetti frutto di una carriera di viaggiatore. Ai tanti premi oggi s’aggiunge il primo David di Donatello del regista, 79 anni e 19 film.
Suo padre la definiva un "seguace di sogni". Tra i suoi sogni c’era anche il David?
«Da quando ho iniziato ho fatto tanti film, ne ho prodotti. Non sono mai neanche stato nominato. Uno sgarbo grave. A un certo punto non mi interessava più. Ora che il mondo si è aperto a nuove idee sono contento di riceverlo. Mi piace che sia "speciale" e non "alla carriera", non sono in pensione».
Ci sarà Tim Burton, che la cita tra i maestri con Bava e Fellini.
«Con Tim siamo amici. Dopo Mani di Forbice venne a Roma per conoscermi e a Los Angeles vado da lui. Ama i miei film, la mia musica».
Lei è stato un cineasta speciale nel panorama italiano.
«Dal primo film si è palesata la mia specialità, anche senza volerlo. L’uccello dalle piume di cristallo ha scosso il cinema, soprattutto all’estero. In Italia fu molto imitato: cinquanta gialli con i nomi di animali nel titolo».
Il suo cinema era considerato disimpegnato?
«Politicamente ero impegnato, ma per me il cinema era il sogno, non la realtà. Ero distaccato dal mondo del cosiddetto impegno, in molti seguivano solo un’onda che portava successo e premi. Ero affascinato dal cinema americano e francese. In Francia ho vissuto gli anni più formativi, avventure e giovani amori. Lì ho scoperto la mia vocazione».
Il suo cinema è una autobiografia horror.
«Ho raccontato me stesso. Poi mi sono concentrato su mia figlia Asia. Il suo carattere ribelle e forte che le ha portato tante disgrazie in seguito, non solo nel cinema, povera figlia. Ma in questo periodo difficile ci siamo voluti più bene».
Avete fatto cinque film.
«L’ho vista crescere: l’ho sempre portata con me sul set, era ragazzina e già organizzava. A 13 anni il primo film, poi gli altri. L’ho vista diventare donna, è stato bellissimo. A cena le dicevo: prova da sola, voglio il tuo carattere, nei miei film».
Tra i progetti una serie di otto episodi pieni di omicidi.
«Non ne posso parlare».
Ma le mani a uccidere saranno le sue come in tutti gli horror.
«Ci può scommettere».
Mani a parte, lei ha fatto l’attore. La prima volta con Sordi.
«Andai a intervistarlo, mi guardava, "fai il chierichetto per me?". È stato un onore. Ho imparato anche con Fellini, mia sorella era segretaria sul set di Giulietta degli spiriti».
Ha girato un film divertente. "Le cinque giornate di Milano" con Celentano.
«Da giovane era stupendo. Ogni tanto nelle pause prendeva la chitarra e cantava, si riuniva una folla enorme».
Non ha invece amato Tony Musante.
«E pensare che lo avevo voluto tanto. Alla prima inquadratura di L’uccello dalle piume di cristallo inizia a muoversi scomposto. Gli chiedo più grazia, mi dice che viene dall’Actors studio. Litighiamo per tutto il set. Prima di partire scopre dove abito e mi viene a bussare per picchiarmi. Prima calmo, "Dario, sono Tony, apri". Poi inizia a urlare, tirare pugni e calci. Non ho aperto».
Lei ama le attrici.
«Sì. I pomeriggi di bambino con dive che posavano per mia madre fotografa, loro si spogliavano e mi turbavano. Ma ho imparato a filmarle. La strega è molto più affascinante di Biancaneve e a quella favola, quei colori, mi sono ispirato per Suspiria».
La musica nei suoi film ha fatto scuola.
«Ennio Morricone mi ha regalato brani improvvisati, composti con il suo gruppo mentre guardava la scena. Straordinario. Profondo rosso dei Goblin fu in classifica per un anno. Keith Emerson era un tastierista geniale, a Londra aveva un teatro, entrava in moto».
Cosa le faceva paura da bambino?
«Ero il maggiore, andavo a letto per ultimo e dovevo attraversare un corridoio lungo e semibuio. I corridoi hanno uno spirito, sa? Nei miei film procurano sempre un’emozione nello spettatore».
Come il suo amico Del Toro lei però cerca i posti maledetti.
«A Guillermo l’ho insegnato io, ho sempre scritto in alberghi tremendi. Ricordo la pensione Helen, macabra, perfetta. La creatività nasce dall’ansia».
Cosa le fa paura oggi?
«Ho paura che il vaso di Pandora da cui estraggo emozioni si rompa e queste orribili visioni mi invadano, facendomi diventare pazzo. Ma ho avuto un dono, madre natura mi ha permesso di parlare con la mia metà oscura. E la racconto nei film».
La società oggi è più impaurita o incattivita?
«È incattivita. Mi fa paura. C’è una furia che pervade la nostra società — i ragazzi che danno fuoco ai clochard — una cattiveria incredibile. Forse anche data dalla politica confusa e confusionaria, senza frutto, che ci porterà chissà dove. Non credo nel meglio, ma nel peggio potrà succedere di tutto».
A chi dedica il David?
«A me stesso. Dopo tanti anni di cinema, me lo merito».