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 2019  marzo 27 Mercoledì calendario

Cinquant’anni di informatica

Che anno formidabile fu quel 1969 a Pisa. Il primo super computer italiano, nato dall’intuizione di Enrico Fermi, macinava bit e ammirazione, di notte si guardava la pallida luna appena conquistata dalla Nasa, gli studenti riempivano le piazze al grido «l’immaginazione al potere». «E io, a 26 anni, iniziavo a insegnare al primo corso di laurea in Scienze dell’informazione – ricorda Giorgio Levi, uno dei pionieri dell’informatica italiana – e poco dopo, con altri colleghi, organizzavo una sommossa». Una sommossa? «Sì, ci ribellammo al presidente del corso di laurea. Volevamo una ricerca e un insegnamento moderni, ispirati all’intelligenza artificiale, ai nuovi linguaggi di programmazione. Pretendevamo macchine al servizio dell’uomo. Eravamo eccitati, sognavamo di cambiare il mondo grazie anche alla tecnologia e gli studenti erano con noi».
All’ombra della Torre pendente oltre al Sessantotto si consumava un’altra rivoluzione, quella dei computer e di quella laurea pensata da Alessandro Faedo e Gianfranco Capriz. «Che non era solo scienza e tecnica – ricorda il professor Levi, 76 anni, a quel tempo docente di linguaggi di programmazione – ma un modo di pensare. Logica e vita che ci rendeva versatili, aperti al mondo. Abbiamo formato una generazione di professionisti e ricercatori».
Levi oggi si occupa di arte. Scrive libri, dirige una rivista di ceramiche e arti decorative del ‘900, ma il fermento dei bit non l’ha dimenticato. «Sono curioso ma anche deluso. Ho studiato il blockchain, quel sistema “infallibile” che demanda a una macchina la sicurezza di noi umani e sono rabbrividito. Certo, sono stati fatti passi enormi, ma molti dei nostri sogni sono stati infranti».
Già, i sogni. Che a studenti e prof, quando il corso di laurea aprì, sembravano della stessa sostanza con la quale si formano i bit. Possibili, dunque. Logici. «Con l’informatica sognavamo di abbattere la burocrazia – continua Levi —, di rendere la società più trasparente, di dare maggiore lavoro e opportunità. E invece, mezzo secolo dopo, la casta non è cambiata, gli enti pubblici funzionano peggio di prima, il lavoro è crollato».
Il docente si ricorda ancora l’emozione nel vedere la Cep, il primo super calcolatore italiano nato a Pisa nel 1961. Occupava mezzo piano all’Istituto di Fisica, il sue ventre custodiva 3.500 valvole, duemila transistor e 12 mila diodi al germano ed era potente come lo è oggi un orologio al quarzo da cinque euro. «Fermi, che a Pisa aveva studiato, nei primi anni 50 aveva esortato docenti e ricercatori a pensare più ai computer che al nucleare – ricorda Levi —: l’informatica nostrana si è sviluppata anche grazie a lui».
E oggi? «Oggi l’informatica ha perso la spinta propulsiva di quegli anni. Quel corso era anche un po’ neoplatonico, si inventavano linguaggi per dialogare con le macchine, si guardava all’iperuranio dei bit. Ora l’informatica è un grande business e ha perso un po’ della sua poesia. Ma il 1969 è un anno importate, in Italia, da ricordare sempre». Come in questi giorni l’ateneo sta facendo con una serie di iniziative, dibattiti ed eventi pensati e coordinati da Nicoletta De Francesco, una delle prime studentesse di quella laurea e oggi prorettore.