Sono soldi, tanti soldi, sottratti ai servizi per i cittadini, agli investimenti pubblici, agli stimoli per l’economia privata. Naturalmente il governo può provare a mantenere inalterato il livello dei servizi ai cittadini, e anche a introdurre nuove misure di spesa (è quello che sostanzialmente ha fatto il governo Lega-Cinque Stelle con la legge di Stabilità per il 2019) ma il prezzo da pagare è un saldo di bilancio negativo. Cioè un deficit (programmato per l’anno in corso poco sopra il 2% del Pil, ma le previsioni pressoché unanimi puntano già su un valore intorno al 2,5%).
Cioè nuovo debito che va ad accumularsi su quello già esistente. Naturalmente la spesa pubblica non è tutta uguale e ci sono spese che, pur pesando sui conti dello Stato, producono sulla crescita dell’economia nazionale effetti positivi che compensano, o addirittura superano quelli negativi: gli investimenti in infrastrutture, innovazione dei servizi pubblici, ricerca, scuola e università. Non è però il caso dell’Italia gialloverde, che queste voci ha più o meno tutte tagliato per creare lo spazio necessario al lancio del reddito di cittadinanza e delle pensioni a quota 100. Misure assistenziali, di impatto modesto o nullo sulla crescita del prodotto interno lordo e, viceversa, sicuro sul debito.
Trent’anni fuori controllo
L’allarme debito pubblico, in Italia, suona ininterrottamente perlomeno da trent’anni, senza che qualcuno lo ascolti. Nel 1980 è ancora sotto al 60 per cento del Pil ma all’inizio del decennio successivo è già schizzato al 100 per cento (i dati sono contenuti in uno studio di Roberto Artoni, professore di Scienza delle Finanze all’Università Bocconi, citato dal Sole 24 Ore), a causa di politiche di bilancio sciagurate, mai rigorose, e a un’inflazione multipla rispetto ai numeri dei giorni nostri. La corsa prosegue fino al 124 per cento del 1994 e tutti gli sforzi di contenimento della crescita del debito nei decenni successivi non producono risultati rilevanti, se è vero che oggi, 26 marzo 2019, siamo ben oltre il 130 per cento.
L’incertezza e le imprese
L’Italia morirà affogata nei debiti? Qual è, se ne esiste uno, il limite oltre al quale non si può andare? E soprattutto, quali sono gli effetti negativi per il bilancio pubblico, cioè indirettamente (ma non troppo) per le tasche degli italiani? Più debito, più interessi da pagare. Ci sono poi gli effetti meno evidenti, sui quali la teoria economica si esercita da tempo. Il primo: lo Stato, per finanziare il debito, prosciuga risorse altrimenti destinate al settore produttivo, agli investimenti privati. Lo Stato si mette in concorrenza con l’economia privata, e tra l’altro è una concorrenza distorta dal diverso e più favorevole regime fiscale cui sono sottoposte le cedole dei titoli di Stato (12,5 per cento) rispetto alle altre forme di investimento. Secondo: generalmente per arginare la crescita eccessiva del debito uno Stato attento agli equilibri del proprio bilancio finirà per aumentare le tasse. In Italia il tema tornerà d’attualità non appena — superate le elezioni Europee — si parlerà di manovra di aggiustamento dei conti pubblici. Quand’anche non accadesse, secondo gli economisti è assai probabile che si verifichi comunque il cosiddetto “effetto — spiazzamento”: i consumatori, nel timore di una possibile, prossima stretta fiscale rallentano le spese e trasferiscono parte del reddito in risparmi. La logica è simile a quella che condiziona, nelle fasi di incertezza, la propensione all’investimento delle imprese: se la linea dell’orizzonte è offuscata, meglio non avventurarsi. Non si compra il capannone, non si cambiano le macchine, non si fanno nuove assunzioni. È più o meno quello che sta accadendo da un paio di trimestri a questa parte, e disgraziatamente l’effetto-incertezza si combina con quello, almeno altrettanto potente, del peggioramento della congiuntura internazionale.
Il rating
Debito pubblico, crescita del Pil e politiche fiscali: tre fattori che si condizionano tra loro e in qualche modo dipendono l’uno dall’altro. Certamente, insieme, contribuiscono a formare la reputazione di un Paese sui mercati finanziari, la percezione di credibilità e affidabilità, misurata dalle agenzie di rating. Non è soltanto una questione estetica: da quella percezione dipende la propensione dei grandi investitori a concedere fiducia — acquistandoli — ai titoli pubblici di quel Paese, e da questo dipendono i tassi di interesse di quei titoli pubblici. Uno Stato molto indebitato, come l’Italia, a maggior ragione se dimostra di non saper adottare le contromisure necessarie per la crescita infinita del debito, non potrà contare sulla benevolenza delle agenzie di rating e degli investitori finanziari. Per convincere questi ultimi bisognerà pagare tassi di interesse più elevati. E — al netto di possibili, nuove tempeste finanziarie, dagli esiti che potrebbero anche essere drammatici — la spesa per gli interessi accrescerà la montagna del debito pubblico. L’Italia è, da almeno 25 anni nel bel mezzo di questo vortice letale. I pochi, istruttivi intermezzi a questa tendenza sono lì a dimostrare che il destino non è ineluttabile.