Corriere della Sera, 26 marzo 2019
Biografia di Cesare Battisti raccontata nei verbali d’interrogatorio
Due i verbali, una decina di pagine riempite da Cesare Battisti di fronte al capo del pool antiterrorismo della Procura di Milano Alberto Nobili che lo interroga nel carcere di Oristano. «Parlo solo delle mie responsabilità», è la sua premessa.
Il primo verbale si apre con l’ex terrorista dei Proletari armati per il comunismo il quale assicura che si sarebbe dissociato già nel 1981 se quell’anno non fosse evaso dal carcere di Frosinone dandosi latitante. Solo oggi, a quasi 40 anni dai delitti per i quali è stato condannato all’ergastolo, ha la prima «opportunità – dice – di ripercorrere le mie esperienze». E lo fa non perché spera di ottenere benefici penitenziari, ma per una scelta che a quel tempo «avevo dovuto dissimulare ai miei ex compagni della lotta armata perché avrei messo a rischio la mia vita».
Comincia da quando aveva 17/18 anni e già si dedicava a furti e rapine intorno a Frosinone. La famiglia era vicina al Pci, lui stesso era stato iscritto alla Fgci prima di passare a Lotta Continua e, come una specie di Robin Hood, «diverse volte – dichiara – ho dato per la causa comunista somme di denaro che arrivavano dai furti e dalle rapine». Finì in galera dove avvenne la trasformazione. «Fui influenzato da Nicola Pellecchia (un fondatore dei Nap, morto nel 2013, ndr.) il cui padre divenne il mio avvocato». Era il 1976 quando a 21 anni fu rinchiuso nel carcere di Udine dove incontrò il veronese Arrigo Cavallina che lo fece entrare nei Pac. Il resto è nelle sentenze di condanna all’ergastolo, compresi i nomi dei suoi complici, che lui non fa «per un fatto personale» e perché sarebbe inutile. Quando ripercorre ferimenti e omicidi, la memoria torna vivida. Parla della gambizzazione nel ‘78 della guardia carceraria di Verona Arturo Nigro, perché era convinto che «faceva parte di agenti di custodia picchiatori», o del medico dell’Inail Diego Fava, che all’Alfa Romeo non voleva rilasciare certificati di malattia compiacenti. Quindi gli omicidi. Il maresciallo Santoro delle guardie del carcere di Udine «segnalato dai compagni del Veneto per le torture subite dai detenuti politici. Fui io ad ucciderlo a colpi di arma da fuoco». Le esecuzioni del macellaio Lino Sabbadin, ammazzato a Mestre, e del gioielliere Pierluigi Torregiani, freddato a Milano, la cui colpa fu di essersi difesi uccidendo i rapinatori dei loro negozi. «Chiamavamo costoro i miliziani perché rivendicavano l’uccisione dei rapinatori che, nella nostra ottica erano proletari che volevano riappropriarsi di quello che gli era stato tolto dal capitalismo». Volevano solo ferirli (Battisti partecipò solo al primo omicidio) perché altrimenti ci «saremmo messi sullo stesso piano dei miliziani, quello dei giustizieri». Solo che la persona che doveva sparare a Sabbadin, lo uccise, mentre Torreggiani fu ammazzato perché tentò di reagire. «Non sono un killer, ma – dichiara ancora – una persona che ha creduto in quell’epoca nelle cose che abbiamo fatto. Il mio era un movente ideologico, non avevo un temperamento feroce. A ripensarci oggi, provo una sensazione di disagio, ma all’epoca era così».
A Nobili che gli chiede chi l’abbia aiutato nella latitanza, risponde che in Italia nessuno, all’estero sono stati «partiti, intellettuali e mondo editoriale» a dargli «sostegno ideologico e logistico. Lo hanno fatto per ragioni ideologiche e di solidarietà. Non so se queste persone si siano mai chieste se fossi responsabile di ciò per cui sono stato condannato», ma «per molti non si poneva il problema», ma «sono stato anche supportato perché mi dichiaravo innocente, perché in molti paesi non è pensabile una condanna in contumacia e perché davo l’idea di un combattente per la libertà». Quando il pm gli chiede se ha altro da dire, Battisti, risponde: «Chiedo scusa ai familiari delle persone che ho ucciso o alle quali ho fatto del male. La lotta armata è stata disastrosa ed ha stroncato la rivoluzione positiva, sociale e culturale, cominciata nel ‘68. Per me e per gli altri era una guerra giusta, oggi provo disagio a ricostruire momenti che non possono che provocare una mia revisione. Parlare oggi di lotta armata per me è qualcosa privo di senso».