Il Messaggero, 25 marzo 2019
Intervista al pianista Alexander Lonquich
Nato a Trier (Treviri), la città di Karl Marx, 59 anni fa, Alexander Lonquich è tra i massimi interpreti della letteratura pianistica tedesca. Dopo Roma e Firenze, il calendario del suo tour italiano comprende Milano (questa sera al Conservatorio Giuseppe Verdi), Palermo (domani al Politeama Garibaldi). In programma musiche di Beethoven e una collana di tante piccole perle d’autore.
Alexander, a 17 anni lei ha vinto il Concorso Casagrande di Terni. Quanto ha influito nella sua scelta di vivere in Italia?
«Ci sono tanti altri motivi: mia moglie Cristina, con la quale suono spesso in duo, è italiana, e a Firenze abbiamo fondato Kantor Atelier, un laboratorio di teatro, danza, musica e psicanalisi, sede di masterclass e seminari... Poi il buon cibo e la bellezza dei luoghi, che in Germania non mancano, ma là il cielo è sempre così grigio...».
La sua bacheca di Facebook è una palestra di cultura. Altro che social con volgarità e gattini.
«All’inizio mi divertivo a postare quadri o disegni di artisti poco noti come Bruno Schulz, Wols, Alfred Kubin, Max Klinger, Paul Nash, tutti del primo 900. Nell’arte di ogni epoca c’è qualcosa che ci rispecchia, ma le ansie e l’umorismo di quegli anni sono un po’ la nostra biografia, dove possiamo incontrare i fantasmi di quello che siamo ora. Poi ho cominciato a condividere anche musica e pensieri sparsi, a volte per verificare le mie stesse opinioni. E grazie a Facebook ho fatto nuove amicizie».
Virtuosi, eccentrici, compassati o passionali. In quale di queste tipologie di pianisti pensa di rientrare?
«Nessuna, credo. Parafrasando Lacan si potrebbe dire che la musica è strutturata come un linguaggio, ma ha a che vedere anche con la nostra percezione sensoriale e con una rete di connessioni storiche o puramente associative. Mi piacerebbe essere considerato come uno in grado di indagare e attivare tutti questi aspetti».
Nel recital di questo suo tour italiano, quale filo rosso ha seguito per mettere insieme, prima delle variazioni Diabelli di Beethoven, una suite di tanti piccoli pezzi così diversi tra loro?
«Inizio con la Circus Polka di Stravinsky, che amava giocare con la musica del passato, distorcendola. Gli rispondo con un contrappuntistico esercizio di stile di Beethoven. Poi c’è Adorno, che con un suo omaggio a Bizet conquista via via uno spazio di luce e leggerezza che si fa sempre più arioso con Milhaud, aikovskij, e uno Stravinsky giovanile. Segue un meditativo Janáek, un Reger singolarmente spiritoso, finché, come un colpo del destino, irrompe un Preludio di Schumann ricalcato sul Lacrymosa del Requiem di Mozart, commentato poi da un desolato tango di Stefan Wolpe».
Non c’è posto per un po’ di speranza?
«Certo. Riparto da un brano ingenuamente dolce di Bruckner, Erinnerung, che mi rimanda al Suono di Campane di Grieg. Ancora scampanìi con un agitato Rachmaninoff, poi un ancora più agitato Skrjabin porta a un altro brano di Wolpe, scatenato, violento, tellurico. Avrei potuto finire con la malinconia dell’Addio al mio pianoforte di Carl Philipp Emanuel Bach, ma ho preferito aggiungere un fugace Foglio d’album di Schumann, e il brevissimo L’anello d’oro di Janáek, composto pochi giorni prima di morire, che si interrompe bruscamente, lasciando una sensazione sospesa di incompletezza».
Ha incontrato difficoltà nel proporre un programma così frammentato?
«Il pubblico si aspetta da me gli autori che suono più spesso: Mozart, Schubert, Beethoven, Schumann, ed è giusto che gli organizzatori dei concerti ne tengano conto. Anche io prediligo serate monografiche dedicate a un singolo autore. Ma in certi casi sarebbe bello concordare un paio di brani prestabiliti, e poi avere carta bianca per suonare quello che potrebbero suggerire le libere associazioni del momento. Questa volta è andata così».
Quali sono secondo lei i compositori più pianistici?
«Ovviamente Chopin e Liszt, ma anche Debussy, Ravel e Skrjabin».
E Beethoven?
«Direi proprio di no. Il suo è pensiero potentissimo, trasferito sul pianoforte. Pianistico è ciò che nasce dall’amore per lo strumento, dall’adesione alla sua magia sonora».
Se dovesse scegliere fra le Variazioni Goldberg di Bach o le Variazioni Diabelli di Beethoven, quale salverebbe?
«Farei il furbo: come in Fahrenheit 451 imparerei a memoria le Goldberg, più facili da tenere in testa, e butterei giù quelle. Poi le riscriverei. Così salverei tutte e due».