La Stampa, 25 marzo 2019
La Guerra Fredda combattuta con il design
Era l’estate di sessanta anni fa, quando «Dick & Nik» (così li avrebbero poi definiti gli addetti ai lavori) si incontrarono nella cucina di una casa prefabbricata nel Sokolniki Park. Faceva caldo a Mosca quel 24 luglio 1959, la Guerra Fredda imperava nel mondo ma Casa Bianca e Cremlino provavano a scambiarsi i primi, sotterranei, segnali di disgelo. Dick era Richard Nixon, vice del presidente-generale «Ike» Eisenhower e uomo che negli anni a venire sarebbe passato tra polveri (la sconfitta con Kennedy, il Watergate) e altari (la presidenza nel 1968, l’apertura alla Cina di Mao); Nik era Nikita Krusciov, potente capo del comunismo post-stalinista, che nel giro di pochi anni sarebbe stato vittima delle sue timide aperture riformiste e della congiura di Palazzo di Leonid Breznev.
Fu un meeting insolito. L’occasione la diede l’Esposizione Nazionale Americana nella capitale sovietica, concordata nel quadro degli «scambi culturali per promuovere la reciproca conoscenza» (l’Expo sovietica a New York si era tenuta il mese prima), ma quell’incontro alla ricerca di «amicizia» divenne subito uno scontro di propaganda.
«Le voglio mostrare questa cucina, la stessa che abbiano nelle nostre case in California», disse orgoglioso Nixon indicando la bianca lavastoviglie. «Le abbiamo anche noi», rispose seccato Krusciov. Il resoconto, conservato negli archivi della Cia, ci dice di uno scambio verbale sempre più acceso - «è il nostro ultimo modello, a noi piace rendere la vita più facile alle donne» (Dick), «il vostro atteggiamento capitalistico verso le donne non si verifica sotto il comunismo» (Nik) - e il racconto di un testimone d’eccezione, il famoso columnist conservatore (fu anche speechwriter dello stesso Nixon) del New York Times William Safire, rende ancora meglio l’idea: «The Cold War’s Hot Kitchen».
Quello che è passato alla storia come «il dibattito in cucina» fu l’ultimo simbolico atto di una Guerra Fredda molto particolare, combattuta lontana dalle prove di forza militari, dalle corse allo spazio, da spie e traditori, da omicidi nell’ombra e vendette trasversali e in un’insolito campo di battaglia: quello dei beni di consumo e del design come strumento di lotta politica.
Una mostra al MoMa di New York (The Value of Good Design) esplora ora il «valore del buon design» (all’entrata è in bella mostra la Fiat 500 di Dante Giacosa) anche alla luce di quella che nei primi anni Cinquanta fu una battaglia culturale per esaltare «le virtù del capitalismo consumista americano in confronto al comunismo sovietico». Da una parte design sovietico nazionalista e austero, dall’altra quello industriale degli Usa focalizzato su bellezza, funzionalità e creatività. Oggetti (sedie, poltrone, lampade, utensili da cucina, elettrodomestici) che fu proprio il MoMa a portare in Europa nel biennio 1950-52 (ma grazie a un bel finanziamento e alla supervisione del Dipartimento di Stato) per dimostrare come il capitalismo fosse superiore al comunismo.
Nell’era della nuova «guerra fredda digitale», delle fake news, dell’ambiguo rapporto amici-nemici tra l’America di Trump e la Russia di Putin cresce la voglia di rivedere e ripensare cosa fu, anche nei suoi aspetti meno noti, la Guerra Fredda originale. Dalla tv (basti pensare al successo della serie «The Americans») ai documentari, dai libri fino ai musei (quello del MoMa non è un caso isolato, al Center for Art, Design and Visual Culture dell’Università del Maryland c’è stata una mostra simile) i più attratti sembrano i giovani. E forse non è un caso che a venti minuti di metropolitana dal MoMa ci sia l’unico museo al mondo dedicato interamente allo spionaggio sovietico: il «Kgb Espionage Museum».