la Repubblica, 25 marzo 2019
Imane, gli uomini del mistero
Cosa ha ucciso dunque Imane Fadil? E perché la sua fine si è avvitata in un enigma dove il verosimile e il plausibile non si avvicinano mai troppo al vero o al probabile? Dal 14 marzo, quando la Procura decide di sollevare il sipario sul suo corpo, un po’ di polvere si è posata. Almeno una ventina di testimoni sono stati ascoltati dalla Procura, che procede per omicidio. E oggi pomeriggio, o al più tardi domani, il collegio dei periti guidati dall’anatomopatologa Cristina Cattaneo (celebre per la soluzione del caso Yara e investita da una controversia importante in quello Cucchi) procederà ad un’autopsia che potrebbe mettere un punto a questa storia o, magari, lasciarla ancora in balia di se stessa per il tempo necessario alla scienza.
Conviene dunque stare ai dettagli, alcuni inediti, di quanto è accaduto, così come ricostruiti dalle fonti ( inquirenti, medici, testimoni) sollecitate daRepubblica. Perché è nelle loro pieghe che alcuni fili della matassa cominciano a sciogliersi. Mentre su uno sfondo che si vuole e che resta comunque misterioso, anche al netto delle cause della morte, cominciano per altro a fare capolino nuove figure. Come quella di un enigmatico “Sceicco” degli Emirati, con cui Imane ha avuto una relazione, che frequentava Milano e che in almeno un’occasione sarebbe andato a trovare.
Stava male già a inizio gennaio
Imane comincia a morire a inizio gennaio. Paolo Sevesi, l’avvocato che la assiste dal 2017 nel processo Ruby ter e che rinuncerà all’incarico venerdì 22 marzo, ne ha un ricordo nitido. «Già l’ 11 mi aveva detto di sentirsi sfinita, di colpo invecchiata. Continuava a dimagrire e non si spiegava il perché». I rapporti tra i due sono logori. E non tanto e non solo perché da tempo Imane non è in grado di provvedere neppure al rimborso delle spese vive dell’avvocato. Ma perché in una curva emotiva che alterna sovraeccitazione a vuoti improvvisi di lucidità, Imane si è convinta che tutti la stiano abbandonando. Che dopo aver ricostruito le cene eleganti dell’allora presidente Berlusconi ad Arcore (2011), la giustizia penale non sappia più che farsene di lei. E a maggior ragione l’opinione pubblica. Cui – le viene spiegato da chiunque interpelli – difficilmente interesserà il manoscritto – «un memoriale», dice – cui sta lavorando dall’aprile 2018. Quando lo aveva annunciato così al Fatto: «Berlusconi fa parte di una setta che invoca il demonio (…) Sono sensitiva fin da bambina: da parte di mio padre discendo da una persona santificata e dico che in quella casa c’è il Male, c’è Lucifero». Il 14 gennaio, Paolo Sevesi è di nuovo con Imane. Ed è un giorno complicato, perché viene esclusa come parte civile dal dibattimento e dunque allontanata dall’aula. Denuncia a Repubblica di aver subito tentativi di corruzione, e spiega che ora «paga il conto per aver detto la verità». Ma, con il senno di poi, il dettaglio importante è un altro. Ricorda ancora l’avvocato. «Era molto sudata. Tornò a dirmi che stava molto male. Ma non disse nulla chespiegasse il perché».
Il trasferimento a Rozzano
La verità è che di Imane quasi nessuno sa. Quasi. Ha un fratello, Tarek, che lavora come magazziniere a Milano. Una sorella, Fatima, e un secondo fratello, Sam, che vivono in Svizzera, un’anziana madre, Saadia, che ha vissuto in Italia per trent’anni e un terzo fratello, Munir, che non ha lasciato il Marocco. La danno tutti per residente in una vecchia cascina con sei condomini di via Sant’Arialdo 90, a Chiaravalle. Dove si ipotizzerà, a posteriori, di una vita tra topi e topicidi da cui, accidentalmente, avrebbe assunto veleno (arsenico), ma che, al contrario, mostra ai passanti un giardino curato. Da quella cascina Imane è andata via già da ottobre. Per trasferirsi a casa di un amico. A Rozzano. In un palazzo di case popolari a qualche centinaio di metri dal cancello di ingresso dell’Humanitas. L’amico è un uomo di mezza età, che si fa chiamare “Johnny”, che Repubblica ha rintracciato ma a cui si è impegnata a garantire l’anonimato. È una persona colta, con un passato di impegno nel sociale, e una vita trascorsa in missioni all’estero. Imane si fida e si confida con lui. È Johnny, il 29 gennaio, sull’ambulanza che la porta all’Humanitas.
L’identità sconosciuta ai medici
Sappiamo ormai cosa accada in quella clinica, dove la prima diagnosi – “aplasia midollare” – convince la direzione sanitaria prima a un immediato ricovero in terapia intensiva, quindi in rianimazione e, per un breve periodo, in un reparto degenti. Il midollo di Imane non produce più né globuli bianchi, né rossi, né piastrine. E – come documenta la cartella clinica – questo convince, in una prima fase, a esplorare la possibilità di un tumore che abbia aggredito il midollo, in una seconda a testare l’esistenza di una malattia autoimmune (il lupus su tutte) e, quindi, quella dell’avvelenamento di cui, in termini a quanto pare generici e in un momento di sconforto, Imane parlerà il 12 febbraio.
La verità è che, in tutto questo, almeno per i primi dieci giorni ( complice anche la permanenza in terapia intensiva, luogo non deputato alla conversazione) nessuno sa, all’Humanitas, chi sia davvero quella giovane marocchina. La viene a trovare regolarmente Johnny, che le porta il ghiaccio, lo spazzolino. E l’avvocato Paolo Sevesi.
E anche la Procura è soltanto dopo il 1 marzo, una volta informata del decesso dall’avvocato, che si convince a saltare sulla storia. Sulla scorta di due dati, per altro entrambi “inconcludenti” sotto il profilo medico-legale. Gli esami del 6 marzo condotti dalla Maugeri di Pavia sulla presenza di metalli pesanti nel sangue di Imane. E, il 12 marzo, un “falso positivo” del Dipartimento di Fisica della Statale di Milano che documenta la presenza di «tracce di raggi Alfa» nei campioni di urine e di sangue di Imane «degne di essere approfondite».
Il vicolo cieco
Quei due esami spingono la Procura a rovesciare il tavolo ( è del 14 marzo la conferenza stampa del Procuratore Francesco Greco), a delegare l’indagine alla squadra Mobile, a evocare un contesto da rischio di avvelenamento radioattivo che i primi carotaggi sul corpo escluderanno. Ma c’è di più. Persino quelle tracce di metalli pesanti dicono poco. Corrado Lodovico Galli, presidente della Società italiana di tossicologia e professore alla Statale di Milano, nonché perito nominato dalla Procura, dice: «Cadmio, cobalto, nichel, cromo e molibdeno non sono pericolosi nelle dosi riscontrate nel corpo di Imane. Sono elementi che si trovano ovunque in natura. Possono accumularsi nell’organismo e, a concentrazioni elevate, essere tossici. Ma è sempre la dose a fare il veleno. E ne servono di molto alte».
Insomma, un vicolo cieco. La cui via d’uscita potrebbe essere nell’ipotesi più semplice, che ad uccidere Imane sia stata una rara malattia autoimmune che, collassando il midollo ha prodotto una grave sindrome epato- renale il cui effetto è stato trattenere nell’organismo quelle tracce un po’ fuori norma di metalli. E che tuttavia, nelle more dell’autopsia, è stata bilanciata dal lavoro di squadra Mobile e Procura nell’esplorazione dell’altro scenario. Quello violento di un avvelenamento, tanto sofisticato quanto allo stato ignoto nei suoi componenti, di cui i metalli pesanti sarebbero la traccia.
Trappola per potenti
È un lavoro che si muove su dati circostanziali, sullo studio e incrocio dei tabulati telefonici di Imane, su due uomini più importanti di altri nella sua vita, e su un’indicazione tanto generica quanto diretta, di Souad Sbai, giornalista, ex deputata Pdl e Presidente dell’Associazione donne marocchine in Italia. È così che torna ad essere osservata la posizione di Saeed Ghanaymi, il siriano residente a Milano che era stata la porta di accesso di Imane ad Arcore. Frequentatore del giro delle «olgettine» e che, all’epoca, le aveva messo in mano un cellulare e tre schede telefoniche intestate a una inesistente cittadina rumena residente a Napoli di cui faceva fede una falsa carta di identità. E che oggi, per pura e suggestiva coincidenza, è amministratore di un’azienda siderurgica del bergamasco. Che dunque tratta metalli.
Ed è così che la Mobile si mette dietro anche a uno “sceicco”, così viene genericamente indicato, residente negli Emirati, che dicono frequentasse Milano, che con Imane aveva avuto una relazione e che Imane, negli ultimi due anni, per certo era andata a trovare almeno una volta. Ed è così infine che viene ritenuto utile ascoltare in Procura Souad Sbai, subito dopo la sua intervista a Repubblica. Nel suo racconto, pure privo di indicazioni specifiche e sfidato dall’annuncio ufficiale di una querela per diffamazione delle autorità marocchine, l’ambasciata marocchina a Roma è evocata come il perno di un altro tipo di cene eleganti in cui Imane sarebbe finita insieme ad altre ragazze. Utilizzate come honey trap, trappola al miele, in cui catturare, con l’arma del ricatto, uomini d’affari, potenziali informatori e in genere quel mondo che si muove felpato intorno al Potere dei soldi. Dove Imane avrebbe commesso un passo falso. Fatale.