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 2019  marzo 25 Lunedì calendario

Moise Kean: «Noi nati qui siamo tutti italiani»

La foto tutti insieme, tutti bambini e tutti uguali, la facevano qui sul piazzale davanti alla chiesa, dopo la rotonda e prima dell’ospedale. Tutti uguali e tutti italiani. Era l’immagine che chiudeva l’estate del Grest all’oratorio Don Bosco, quando a ferragosto arrivano le prime piogge e la stagione finisce. Al momento di mettersi in posa, lì intruppati, il bambino Mosè aveva già un duecento partitine nelle gambe. «Mai fermo, usciva da scuola e veniva ad aspettare un pallone. Si aggrappava alla rete e guardava gli altri, poi si buttava nel mucchio anche lui». Il suo primo allenatore, Luca Agogna, ricorda quell’affarino di sette anni che giocava insieme a quelli di undici, uomini fatti e finiti, e naturalmente li batteva. Ci sono avventure cominciate ieri, cominciate adesso, che arrivano da lontanissimo.
Lui è Moise Kean, il più giovane goleador nella storia della nazionale di calcio in partite ufficiali, 19 anni compiuti da 24 giorni. Quello che ora dice: «Sono italiano, noi figli di genitori stranieri e nati qui lo siamo tutti, non è giusto fare differenze». Ma quando ha giocato a Bologna si è preso i “buuu” razzisti.Da bambino, per tutti Moise diventò subito Mosè, più facile da dire e più adatto all’oratorio, al catechismo. «La sera prima di dormire leggevamo la Bibbia e dicevamo le preghiere, e il mio ragazzo non ha mai smesso».
Mamma Isabelle Dehe è la costruttrice del sogno. È lei ad avere cresciuto Moise/Mosé e il fratello Giovanni, visto che il padre era sparito. Poi, guarda caso, il signor Biorou Jean è miracolosamente riapparso, qui non c’entra Don Bosco ma il primo vero contratto di Mosè. «La Juventus mi ha promesso 700 mila euro e due trattori, altrimenti niente rinnovo!»: questa l’uscita del padre di Kean, un anno fa.
Nulla di memorabile. Ha fatto tutto la mamma, e continua a farlo. «Mosè è un dono di Dio, e anche Giovanni. Da piccolo aveva sempre il borsone del calcio e io gli chiedevo: Mosé, ma tu vuoi andare a scuola o fare il giocatore? Tutte e due le cose, mamma!, rispondeva lui. Quando ha giocato la prima partita in serie A, abbiamo pianto e pregato». E lo hanno fatto in italiano: «La nostra lingua. Io sono nata in Costa d’Avorio e anche mio marito, ma siamo in Italia da trent’anni e nessuno è più italiano dei miei figli».
Non è un trattato di sociologia politica, né uno studio su etnie, flussi demografici e diritti di cittadinanza. Si chiama, molto semplicemente, realtà. Basta andare in qualunque scuola per capirlo, o al campetto della parrocchia. È per questo che Mosè un po’ si è stupito di certe domande, l’altra sera a Udine, ancora immerso nel suo primo gol in Nazionale. «Sono italiano dalla nascita ed è giusto trattare tutti noi come italiani, invece questo non succede e mi dispiace, non è giusto, non ci sono differenze».
Non c’erano neppure alla scuola calcio dell’Asti, dove il piccolo Kean venne presto dirottato: troppo forte per l’oratorio. Ed eccolo pestare l’erba del campo numero 3 allo stadio comunale “Censìn Bosia”: Censìn in piemontese è il diminutivo di Vincenzo, il portiere astigiano che vinse due scudetti con il Toro nel ’27 e ’28, il primo dei quali revocato. Una gloria locale quasi come il ciclista Giovanni Gerbi, il Diavolo Rosso. Asti ha i suoi numi e li custodisce, ci sono naturalmente Paolo Conte e Giorgio Faletti e tra un po’, chissà, l’astigiano d’adozione Kean, nato in verità a Vercelli ma è nella città delle cento torri che ha iniziato a diventare quello che è.
«Però non serviva una vista lunghissima per capire che Mosè era speciale». Renato Biasi curava il vivaio dell’Asti quando il piccolo Kean venne segnalato a Silvano Benedetti, ex giocatore granata e responsabile della scuola calcio del Toro. «Nello sport non bisogna essere egoisti, era giusto che Mosè giocasse insieme a quelli forti come lui, anche se lui lo era di più». A quel tempo, il millenial juventino «era irrequieto ma educato». Adesso, dall’alto del suo gol e del suo sogno, Mosè è meno indulgente con sé stesso: «Errori ne ho fatti un sacco, devo solo dire grazie ai miei insegnanti». Sincero sempre, e paura di niente.