La Lettura, 24 marzo 2019
Ho fatto l’autopsia all’anima di Chanel
Sulla copertina del libro Il caso Coco Chanel. L’insopportabile genio (Giunti), un disegno riproduce la celebre foto di Man Ray. L’anno è il 1935, la creatrice di moda è al culmine del suo successo, grazie al profumo, gli abiti, i cappelli, la bigiotteria, l’amicizia con grandi scrittori e artisti. Fiera, la sigaretta in bocca, abito nero, cinque giri di perle al collo, lo sguardo deciso: è l’immagine di una donna di potere. «Ma è un’immagine costruita, artefatta, come il personaggio», commenta Liliana Dell’Osso che firma il libro con Dario Muti e Barbara Carpita. Ripercorre, il libro, la biografia di Gabrielle «Coco» Chanel (1883-1971) con l’attenzione e il metodo con cui si fanno le diagnosi di persone affette da disturbi psichici. Questa donna che ha rivoluzionato la moda (abolizione di corsetti e imbottiture, pantaloni e altri abiti di foggia maschile, predilezione per il bianco e nero, uso di tessuti come il jersey fino allora mai impiegato per abiti femminili), che non ha mai voluto raccontare la sua infanzia in provincia, che sistematicamente fabbricava menzogne sul suo passato, diventa un caso di studio. Dell’Osso dirige l’Unità operativa di Psichiatria e la Scuola di specializzazione dell’Università di Pisa. Fra le molte pubblicazioni scientifiche, del 2016 è L’altra Marilyn. Psichiatria e psicoanalisi di un cold case (Le Lettere).
Tre anni fa, Marilyn Monroe, oggi Coco Chanel: due «casi» da sottoporre a una «autopsia psicologica». Marilyn muore tragicamente (più omicidio che suicidio), Chanel, dopo un periodo di sbandamento politico ed esistenziale fra gli anni Trenta e Quaranta, risorge e torna a essere l’incarnazione dell’idea stessa della moda. Che cosa unisce queste due donne, oltre la celebrità?
«Tre caratteristiche principalmente. La prima è quella di aver contribuito a ripensare drasticamente il concetto di femminilità. Norma Jeane ha inventato Marilyn, maschera iperfemminile e straordinariamente seduttiva. Gabrielle ha cambiato la configurazione sociale della donna, trasformandola in una figura moderna, dinamica e attiva, coordinata e non subordinata all’uomo: femminista ante litteram, ha inventato Coco, la donna del Ventesimo secolo. Entrambe rimarranno nella cultura popolare, idoli contemporanei, “sante” moderne, icone immortali. Ciò conduce alla seconda caratteristica: il pensiero divergente, creativo, innovativo. Una scintilla brillante, precocemente estinta in Marilyn, e una luce decisamente più fulgida e persistente in Coco. Alla radice, infine, si ha la terza coincidenza fra le due: entrambe queste donne hanno manifestato, seppur con gravità drammaticamente differente, una sintomatologia riconducibile, in ultima analisi, a sintomi e tratti dello spettro autistico».
Il « caso Marilyn» era nato in un seminario, a fini didattici (si erano indicati dettagli della vita e i gravi disagi psicologici, ma senza fare il nome), perché i partecipanti al corso facessero una diagnosi. Ma il «Caso Coco Chanel» com’è nato?
«La ragione che ha portato il caso di Coco Chanel al centro delle nostre ricerche ha origine nel desiderio di abbattere lo stereotipo della prevalenza, nel genere maschile, della sindrome di Asperger, disturbo autistico generalmente associato alla creatività e alla genialità. In linea con le ricerche condotte con il mio gruppo presso l’Università di Pisa, serviva un caso emblematico di figura femminile ad alto funzionamento sociale, mai diagnosticata come Asperger. Coco si è imposta subito all’attenzione, e lì è rimasta»
In entrambi i casi, lei segue un identico paradigma: spettro autistico nell’infanzia; vulnerabilità nei confronti dei traumi (Marilyn: madre pazza, famiglie in affido, forse abusata; Chanel: morte della madre, il padre la mette in collegio e se ne disinteressa); comportamento «borderline».
«È appunto il modello di disturbo borderline che, negli ultimi cinque anni, ho indagato in vasti campioni di pazienti, in collaborazione con importanti università italiane. Ciò che bisogna notare, tuttavia, è che le differenze fra le due figure sono tutte descrivibili nei termini ora di vulnerabilità, ora di resilienza: i due poli opposti della stessa dimensione. Si potrebbe dire che, per tutta la sua lunga vita, Coco abbia danzato sull’orlo dell’abisso in cui Marylin, purtroppo, finì con il cadere».
Comune alle due donne, la creazione di una maschera («persona»), grazie alla quale ottengono il successo. In entrambi i casi, vogliono essere desiderate: Marilyn per il sesso; Chanel per i suoi abiti.
«Ed entrambe, per tutta la vita, soffriranno del richiamo sociale e dell’enorme successo (pur costantemente ricercato e ossessivamente perseguito, in una sorta di “dipendenza dalla fama”) di questo costrutto artificiale che si sono poste volontariamente sul volto, a causa della difficoltà, “autistica”, di interagire socialmente. È uno dei paradossi dello spettro autistico, specialmente quello femminile: si crea una struttura artificiale per interagire con il mondo, spesso straordinariamente efficace. Ma il costo per mantenerla è enorme, fino a diventare insostenibile».
Molto più di Marilyn, Chanel manipola, sfrutta i suoi uomini. Saranno loro a finanziare l’apertura della boutique a Parigi e la crescita della sua produzione.
«Con Coco il topos si inverte. Saranno infatti gli uomini a diventare le sue “muse”, occasione per ispirare abiti, produzioni, attività. Almeno, ciò avviene per larga parte della sua carriera: il momento di maggiore sofferenza soggettiva e di massima fragilità coincide proprio con una relazione in cui lei si abbandona a una figura decisamente più modesta: Paul Iribe».
Tutt’e due soffrono di insonnia, e ricorrono a farmaci; Chanel soprattutto a iniezioni di morfina.
«Una coincidenza non da poco: la dipendenza dai farmaci e dalle sostanze psicostimolanti, nei confronti delle quali si configurano condotte di abuso, è un marcatore di profonda sofferenza soggettiva, riconducibile a un disturbo post-traumatico da stress. In Coco coincise con il lutto traumatico di Arthur “Boy” Capel, il grande amore della sua vita, morto in un incidente di auto nel 1919».
In entrambe è rilevante un ricorso continuo alla menzogna. Ma se in Marylin la bugia è dolorosa, suscita quasi compassione («sono la figlia di Clark Gable» diceva da bambina), in Chanel è più abitudinaria, anche se soprattutto le serve a non dire niente sulla sua infanzia.
«Questo è l’effetto dei tratti resilienti di Coco. Le menzogne di Marylin, così come i “monroeismi”, sono un po’ dei sintomi negativi: testimoniano un deficit. Quelle di Coco sono menzogne apparentemente casuali, ma la cui funzione è quella di stendere una cortina di fumo; e di un coerente ripudio del principio di carità comunicativa: servono a distanziarla dai comuni mortali».
Se Marylin è abitata e condannata da un inesauribile bisogno di piacere, di essere amata, desiderata, Chanel è più distaccata. Vuole che i suoi vestiti piacciano. In più, Chanel ha una passione per il comando, vuole dominare. Non necessariamente nella sfera privata, ma nel suo lavoro. Chanel è una donna di potere, Marylin finisce stritolata dal potere (i Kennedy, Sinatra, la mafia).
«Marylin cercherà per tutta la vita un porto sicuro, un punto d’appoggio. Tendenza presente anche in Coco, che tuttavia si tutelerà sempre cercando innanzi tutto di creare un benessere materiale per sé. Marylin cerca un principe azzurro, Coco un principe consorte. Entrambe promiscue, con un passato da escort, una sessualità fluida. Marylin ne morirà, Coco, che di maschile aveva anche il tipo di pensiero, ne farà il nucleo della sua rivoluzione stilistica indossando i pantaloni: la devianza diventa avanguardia!».
Dall’inizio degli anni Trenta (il legame con Paul Iribe) e per oltre 15 anni Chanel condivide ed esprime idee di estrema destra, anche antisemite (senza dimenticare i due amanti nazisti nella Parigi occupata). Per questo, nel 1944, fugge in Svizzera e ci resta per quasi dieci anni. Come si iscrive questo «lato oscuro» nella figura e nella vicenda di Chanel?
«Il particolare momento storico tira fuori, in un certo senso, il peggio dal carattere della couturiére. La sua adesione a Vichy e i suoi legami con le SS nascono da ragioni di convenienza. Ciò che sconcerta oggi è la leggerezza con cui Coco si muove. Da un lato, le premono le sorti del nipote/presunto figlio, prigioniero. Dall’altra, semplicemente, continua la sua vita “dorata” tra amanti e cene di gala. Ma non c’è adesione ideologica. Questa “irresponsabilità” è sicuramente il lato più oscuro del carattere di Coco. Per non dire “temerarietà”, quasi un comportamento controfobico, ipercompensatorio di un disturbo di panico documentato in Coco (come in tanti pazienti che, affetti dalla stessa patologia, si impegnano in sport estremi, per dimostrare di non essere vigliacchi). Lo stesso disturbo di panico che la portò a rottamare il corsetto e tutto l’armamentario asfissiante dell’abbigliamento femminile ottocentesco. Altro aspetto psicopatologico che diventa un elemento innovativo. Gabrielle aveva l’esigenza, soprattutto, di vestire Coco, e finì con il vestire la donna moderna. Persino negli aspetti più gravi: lo sfregio autoinflitto del taglio dei capelli (che ricorda i comportamenti autolesionistici di tante nostre pazienti borderline) diventa il taglio à la garçonne. Ancora una volta la devianza diventa avanguardia!».