il Giornale, 24 marzo 2019
Biografia di Franco Battiato
«Spero che ritorni presto l’era del cinghiale bianco». Sono passati quarant’anni, ma non è ancora tornata. Ahinoi. Epperò è ancora lì che circola nelle orecchie di almeno un paio di generazioni. Parliamo dell’Era del cinghiale bianco, disco e omonima e celeberrima canzone di Franco Battiato, che vide la luce, per l’appunto, nel 1979.
Un disco dirompente, ma dal successo non travolgente. Un longseller più che un bestseller. Non vendette tantissime copie, ma segnò una svolta per la musica leggera d’autore e soprattutto per l’autore. Fino a quel momento Battiato infatti aveva fatto per lo più musica sperimentale e d’avanguardia, ad eccezione di qualche incursione nel pop di fine anni Sessanta. Suoni sconosciuti, rudimentalmente elettrificati dai primi sintetizzatori; rumori di quotidianità infilati in mezzo a sinfonie classiche, radio che sfrequenzano all’impazzata cuocendo nella stessa pentola frammenti sonori incomprensibili. «È vero, allora facevo una musica con un suono distruttivo, esagerato, suicida», ebbe modo di dire anni dopo l’artista catanese. La furia da astronauta dei suoni pian piano si placa, l’esplorazione delle vibrazioni diventa più razionale. Ma nel 1978 Battiato dà alle stampe un Lp ai più ancora incomprensibile: L’Egitto prima delle sabbie, titolo dell’album e di una delle due canzoni che contiene. La prima traccia dura 14 minuti e 15 secondi, durante i quali viene ripetuta la stessa nota variando solo la distanza tra le esecuzioni. Un disco non esattamente radiofonico. Non lo capisce quasi nessuno, a parte quel genio matto di Karlheinz Stockhausen che gli tributa l’omonimo premio. Siamo nel 1978. Passano dodici mesi e con L’era del cinghiale bianco Battiato cambia tutto, a partire da se stesso. In pochi mesi sembra distillare la sintesi – radiofonica e commerciale, seppur sempre alta – di oltre un decennio di studi, sperimentazioni, provocazioni e follie musicali. Il 1979 è l’anno decisivo. Se Francesco Battiato nasce a Ionia nel 1945, il Franco Battiato che conosciamo oggi, il sacerdote del pop d’autore, nasce nel 1979 negli studi della Emi italiana a Milano. Il 10 settembre la casa discografica rilascia l’album L’era del cinghiale bianco, sette tracce per trenta minuti e una manciata di secondi. Il genere? Inutile porsi questa domanda di fronte all’opera di Battiato. Battiato diventa un genere lui stesso, difficile da riporre negli scaffali della musica tradizionale. Fa quello che gli pare e sposta il suo tappeto volante da uno stile musicale all’altro. Ed è sorprendente la maestria con la quale, dopo anni di sonorità aspre e spigolose e dischi gloriosamente invenduti, in men che non si dica riesce ad affascinare il pubblico di massa e a maneggiare materiale da hit parade. Sempre a modo suo, ovviamente.
In questo disco c’è il meglio di tutto il Battiato prodotto fino a quel momento e ci sono i germi di tutto quello che succederà negli anni successivi. C’è l’esoterismo – per nulla nascosto, ma anzi ostentato -, l’esotismo, la spiritualità, l’amore per le filosofie orientali, la fascinazione per l’India e la Tradizione, lo spirito caustico e ironico nei confronti del mondo moderno e il legame con la propria terra, la Sicilia. È un disco premonitore persino a livello personale, non solo delle tematiche che Battiato svilupperà negli anni successivi. Nella seconda traccia, Magic shop, il cantante ironizza: «C’è chi parte con un raga della sera e finisce per cantare la paloma». Insomma, inizi dalle sacre sinfonie e finisci per fare le hit da discoteca. Dagli altari dello spirito al dance floor. Due anni dopo, nel 1981, sarà il primo italiano a sfondare il muro del milione di copie vendute sulla breccia di una canzone che ha fatto storia. Il titolo? Cuccurucucù. Scherzi del destino.
In L’era del cinghiale bianco Battiato filtra tutte le sue passioni e le comprime in un disco. Il paradosso è che si tratta di un disco dalle sonorità assolutamente pop con testi molto ermetici e riferimenti a una cultura più elitaria che popolare. Accanto a lui si esibisce un dream team: al violino Giusto Pio, alle percussioni Tullio De Piscopo, alla chitarra Alberto Radius e alle tastiere Antonio Ballista. Luna Indiana, traccia strumentale e ipnotica, viene eseguita dal duo pianistico Danilo Lorenzini e Michele Fedrigotti.
A partire dal titolo il disco si richiama apertamente a René Guénon, filosofo e studioso del sacro e della Tradizione. Battiato trasforma l’esoterico in essoterico, cioè diffonde ai più quello che appartiene ai pochi. Giocando sempre sul filo del nonsense e della non comprensione, fa cantare migliaia di persone di corpi astrali, credenze celtiche, tradizioni induiste e passi di testi di Gurdjieff.
Ma, come in un ascensore fuori controllo, l’alto si mescola con il basso e spuntano Amanda Lear, i peli del Papa, Wall Street e gli incensi di Dior.
Il cinghiale bianco è il simbolo dell’autorità spirituale contro il potere temporale, l’eterna lotta tra l’alto e il basso, il verticale e l’orizzontale. Il tutto ambientato in un clima tiepido ed esotico da Arabia Felix, fra temporali tunisini, sigarette turche e studenti di Damasco.
Il tema della critica al materialismo della modernità torna anche nella traccia Il re del mondo – una delle più belle composte da Battiato -, titolo appunto di uno dei libri dell’esoterista Guénon. «Nei vestiti bianchi a ruota echi delle danze sufi, nelle metro giapponesi oggi macchine di ossigeno, più diventa tutto inutile e più credi che sia vero. E il giorno della fine non ti servirà l’inglese». Come distruggere i nostri tic moderni con poche strofe in bilico tra la poesia e la denuncia, la nostalgia e il sarcasmo. Quarant’anni dopo nulla è cambiato. Nemmeno L’era del cinghiale bianco, che non è tornata perché, in fondo, l’attualità del disco non se n’è mai andata.