Corriere della Sera, 24 marzo 2019
Topolino maestro di lingua
Gasp! C’è un topo nei trending topic! A lungo, in testa alla classifica degli argomenti più discussi in rete, spiccava ieri il nome di #Topolino. A più riprese, nei giorni scorsi, il giornale amato da intere generazioni di bambini era entrato nel dibattito politico: additato a vario titolo da Carlo Calenda, Massimo Cacciari e Matteo Salvini come esempio di lettura stupida, banale, poco attendibile. Sob! La levata di scudi – scatenata da Francesco Artibani, uno degli autori del settimanale – non si è fatta attendere. «Topolin, Topolin, viva Topolin!». Altro che tutto fumetto e niente arrosto! Altro che testa tra le nuvole! Quella lettura, per molti di noi la prima lettura in assoluto, è stata una straordinaria scuola di lingua.
Topolino, scuola di stile?, s’intitolava nel 1974 un saggio della studiosa Monique Jacqmain. Mumble mumble. Certo che sì. Come ha dimostrato uno studio più recente (Parola di papero di Daniela Pietrini, Franco Cesati editore, 2008), da settant’anni gli albi di Topolino si rivolgono ai lettori in una lingua impeccabile per costruzione sintattica e – soprattutto – per ricchezza lessicale. Una lingua corretta ma vivace, che sa giocare su un ampio ventaglio di toni: neologismi, tecnicismi, parole straniere, invenzioni verbali. Ma da sempre punta molto sul ricorso più o meno scherzoso a parole auliche, arcaiche, letterarie. Un lessico da topolini di biblioteca.
Basta pensare alle rituali lamentele di zio Paperone: «me misero, me tapino, me derelitto!» o alle effimere esultanze della banda Bassotti: «gioia, gaudio, tripudio!». Il nido di un uccellino può essere un giaciglio; un peso può essere soverchio, un nipote riottoso, uno zio affranto o turlupinato. Wow! Che paroloni! Di quelli che oggi i dizionari considerano parole da salvare, molti politici parole da evitare. Forse è questo che li porta a vedere Topolino come il fumetto negli occhi. Immaginiamo l’imbarazzo di alcuni di loro di fronte a passaggi come quello in cui Paperino – parlando di una campagna elettorale – esclama: «Li molcisce dunque con blandizie verbali, la lingua biforcuta!». O a storie come quella in cui Superpippo affronta il mostro dei congiuntivi, che tuona: «neanche un supereroe potresse sconfiggermi!».
Roba da professoroni, potrebbe commentare qualcuno. Senza ricordare che già nell’Inferno di Topolino (1949) la categoria veniva bonariamente presa in giro. «Anima scellerata, hai studiato la lezione? Hai fatto i compiti? Hai ripassato la grammatica?», diceva un buffo figuro con la tuba in testa aggrappandosi alla barca di Topolino-Dante. Come spiegava la didascalia: «Le guance aveva gonfie di furore / E dagli sguardi torvi ed irascibili / lo riconobbi ch’era professore». Argh! Ai nostri litigiosi politici non sarà sfuggito, peraltro, che il campo in cui i personaggi di Topolino amano sfoggiare la più sfrenata esibizione lessicale è proprio quello delle ricercatissime ingiurie: fellone, ribaldo, gaglioffo, scellerato, marrano. Ma... parolacce? Giammai! Pfui!