Corriere della Sera, 24 marzo 2019
«L’Isis ha ancora soldi e seguaci»
«Dobbiamo tenere gli occhi molto aperti perché non è finita». Joby Warrick, due volte premio Pulitzer, conosce l’Isis come nessun’altro. Fonti di intelligence, fonti dirette sul campo, lavoro investigativo. Gli anni di esperienza e di lavoro lo insegnano: tagliare la testa del serpente è un’impresa titanica.
Perché sconfiggere l’Isis è così difficile?
«Al Baghdadi e i suoi uomini hanno investito molti sforzi nella creazione di un’entità statuale perché il controllo del territorio porta soldi, uomini e armi. Ma al tempo stesso hanno imparato che se hai una capitale hai anche un indirizzo dove il tuo nemico ti può trovare. Dunque ora tornano nell’ombra, dove è ancora più difficile scovarli e vedere cosa fanno».
Il segretario delle Nazioni Unite António Guterres lo ha definito in febbraio un «covert network», una rete nascosta. Nonostante la sconfitta militare, Isis dispone ancora di soldi e di seguaci? «Assolutamente. A differenza di Al Qaeda che si finanzia per lo più grazie alle donazioni e alla charity, Isis basa la sua economia sul traffico di petrolio, droga ed altre attività illegali, proprio come un cartello. E combatterlo su questo piano richiede uno sforzo maggiore».
Nell’ultimo messaggio di propaganda il portavoce dell’Isis Hassan al-Muhajir sostiene che Al Baghdadi sia vivo...
«Al momento non abbiamo motivo di credere che non lo sia. Come le origini dell’Isis insegnano, i capi vanno e vengono ma l’ideologia resta. Negli ultimi mesi, nelle chat dei sostenitori il ruolo di Al Baghdadi è stato messo in discussione. Ma la sua figura non è fondamentale per la sopravvivenza del gruppo. Isis è una sigla cui ancora decine di gruppi di jihadisti in tutto il mondo si affiliano, portando uomini, contatti e canali. Ed è questo che deve preoccuparci più di tutto».
In Europa si discute molto sul destino dei foreign fighters e delle loro famiglie. È meglio lasciarli in Siria o farli rientrare?
A differenza di Al Qaeda che basa la sua economia sulle donazioni, Isis è come un cartello di attività criminali. E combatterlo richiede sforzi maggiori
«I curdi non possono portare i prigionieri di fronte a un tribunale perché non hanno uno Stato. D’altro canto sappiamo come sia importante che i prigionieri vengano giudicati con regolari processi, proprio per evitare nuove ondate di radicalizzazione. Dunque è meglio che i miliziani vengano giudicati nei loro Paesi d’origine».
C’è però il rischio che queste persone ne radicalizzino altre in carcere e una volta uscite facciano nuovi proseliti...
«Sì e proprio qui sta la sfida. Dobbiamo cambiare il modo di ragionare e concentrarci su quello che accade nelle nostre prigioni e nella nostra società perché solo così si riesce a fermare il ritornello della propaganda».
In dicembre il presidente Trump ha annunciato il ritiro dalla Siria. Questo cosa comporta per la lotta all’Isis?
«Trump dice all’Europa che ora si deve occupare del problema e deve farsi carico dei prigionieri. Ma sappiamo come anche per lui sia difficile portare via gli uomini dal campo. A impedirglielo non sono solo gli equilibri interni. Gli Stati Uniti e l’Occidente tutto hanno una grande responsabilità nei confronti di questa regione. Se Trump vuole sconfiggere l’Isis non deve solo tenere gli uomini sul campo. Deve anche sostenere il rafforzamento dei governi locali».
Nelle ultime ore della battaglia abbiamo visto le donne dell’Isis combattere. È solo propaganda o il ruolo delle donne nei gruppi jihadisti sta cambiando?
Gli Stati europei devono farsi carico dei processi ai foreign fighters Ma devono al tempo stesso evitare ondate di radicaliz-zazione nelle carceri
«Alcune donne sono finite lì perché sono state costrette. Ma come ho potuto verificare di persona, alcune sono convinte e pericolose tanto quanto gli uomini. Il loro ruolo va dunque preso molto sul serio, soprattutto se guardiamo al futuro».