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 2019  marzo 24 Domenica calendario

L’Isis senza terra. La fine del Califfato

Alla fine anche i portavoce curdi annunciano la sconfitta del Califfato nelle sue ultime roccaforti nella Siria Nordorientale. «Baghouz è stata liberata. La vittoria militare contro Daesh (l’acronimo arabo dell’Isis) è completa», ha scritto ieri mattina su Twitter Mustafa Bali, capo dell’ufficio stampa delle forze militari curde in Siria riferendosi al villaggio sull’Eufrate, non lontano dal confine iracheno, dove si erano rifugiati gli ultimi combattenti dell’Isis organizzati in coerenti unità armate. Bali aggiunge tuttavia che i comandi curdi «rinnovano il loro impegno a continuare la guerra e perseguire le ultime sacche di resistenza jihadista sino alla loro completa eliminazione». Questo per specificare che comunque esistono ancora isolati gruppi di irriducibili nascosti nell’intricato e infido dedalo di gallerie sotto le case di Baghouz.
Spari tra le macerieIeri a metà giornata si udivano ancora sporadici spari tra le macerie, ci sono cecchini ben appostati e protetti da campi minati, oltre a trappole esplosive un po’ ovunque azionate da kamikaze pronti a tutto. Ma soprattutto resistono cellule di fanatici sparsi nelle zone desertiche difficili da individuare e colpire persino con i droni e le osservazioni satellitari. Ancora più elusive sono quelle nascoste nei grandi centri urbani siriani e iracheni. In effetti, i curdi hanno tutto l’interesse a protrarre nel tempo il loro ruolo nella battaglia contro il Califfato al fine di garantirsi il sostegno militare ed economico americano, ma anche per fare fronte alle pressioni sia turche che del regime di Bashar Assad. Già in queste ore appare ovvia la maggior preoccupazione della dirigenza di Rojava (come viene chiamata la zona autonoma curda siriana): la caduta nell’irrilevanza e la scomparsa dai riflettori della politica internazionale. Già due giorni fa dal Pentagono un portavoce aveva affermato che la battaglia contro l’Isis era praticamente vinta, dichiarazioni che del resto aveva rilasciato lo stesso presidente Donald Trump a fine febbraio e ieri, quando ha constatato la «fine» del Califfato anche se gli Usa «resteranno vigili contro l’Isis fino a quando non sarà sconfitto in qualsiasi area operi».
Radicalismo sunnitaIl dato centrale è che in queste ore collassa definitivamente la dimensione territoriale del Califfato, elemento questo che sin dal periodo 2013-2014, con il suo allargamento nelle zone di confine tra Siria e Iraq assieme alla nascita di un’entità transnazionale fondata sul radicalismo sunnita, aveva caratterizzato le sue specificità rispetto ad Al Qaeda e agli altri gruppi dell’estremismo jihadista. Tuttavia, ciò non comporta affatto la fine politica e soprattutto ideologica dell’Isis sulla scena internazionale. I suoi slogan e la sua organizzazione terroristica restano infatti minacciosi, in grado di attirare militanti e costituire un pericolo su scala mondiale. Sono inoltre decine di migliaia i civili, forse oltre 65 mila (in maggioranza donne e bambini), usciti nelle ultime sei settimane dalle macerie di Baghouz, che non hanno affatto rinnegato la loro ideologia e anzi minacciano apertamente di voler costruire «un nuovo Califfato». Tante tra le vedove velate dei «martiri» dell’Isis, pur dopo mesi di infinite privazioni, sono tutt’ora pronte a dichiarare ad alta voce ai giornalisti stranieri tutta la loro fede nell’utopia violenta jihadista e l’odio per i «kafiri», i non credenti (o infedeli) nella loro versione dell’Islam militante.
Gli orfani Hanno con sé nei campi di tende per sfollati migliaia di orfani, i cui padri sono caduti a Kobane, Sinjar, Mosul, Raqqa, nella valle dell’Eufrate, e che potrebbero davvero costituire la prossima generazione di combattenti nutriti a latte e jihad (la guerra santa). A ciò va aggiunto che non è affatto chiaro quale sia la sorte di Abu Bakr Al Baghdadi, il loro massimo leader, e degli altri dirigenti dell’Isis. Secondo fonti dell’intelligence americana, molti di loro e lo stesso Al Baghdadi (la cui morte più volte annunciata non è mai stata verificata) potrebbero essere fuggiti da tempo in Iraq, specie nelle province sunnite di Al Anbar tra Qaiim, Falluja e Ramadi, dove godono di protezioni e ampie simpatie popolari. Un tema difficile questo della popolarità dell’Isis: sino a quando le masse sunnite di Iraq e Siria si sentiranno oppresse da uno Stato confessionale dominato dagli sciiti il consenso per i gruppi radicali e la rivolta violenta resterà diffuso e ragione di proselitismo jihadista in tutte le sue forme, compreso il terrorismo in Occidente.
Da qui l’incognita sulla sorte delle migliaia di volontari arrivati dall’estero: tra loro numerosi francesi, ceceni, afghani, tunisini, libici, palestinesi, algerini. Due anni fa, durante la battaglia di Raqqa, si ipotizzò potessero sfiorare quota 30 mila. Nelle ultime settimane si parlava ancora di almeno 5 mila. Molti sono morti. Ma tanti sono riusciti a nascondersi, sono in fuga, alcuni hanno raggiunto la Libia, la Tunisia, cercano di andare in Europa (un grattacapo per i servizi di intelligence occidentali), oppure si stanno unendo ai «fratelli» in Afghanistan, ai jihadisti africani come Boko Haram, si stanno espandendo in Sudan, in Niger. Che fare di loro, come eliminarli? Parigi, per esempio, tende a non intervenire per rimpatriare quelli catturati in Iraq con passaporto francese, nonostante siano destinati all’impiccagione secondo la legge irachena.
Le rovineTra le rovine di Baghouz c’è infine da cercare di capire cosa sia avvenuto ai prigionieri dell’Isis. Negli ultimi tempi si parlava di circa 300 persone ancora in vita, in prevalenza curdi, da scambiare come ostaggi. Forse tra loro alcune decine di occidentali. Si era anche accennato alla possibilità che fosse ancora in vita il gesuita italiano Paolo Dall’Oglio, sebbene sin dal suo rapimento a Raqqa il 29 luglio 2013 tutte le fonti abbastanza credibili dal posto ripetessero che era stato ucciso quasi subito. Tra le donne nei campi si trovano anche tante yazide catturate nel 2014 e diventate «schiave sessuali». Circa 3 mila non rispondono all’appello, oltre a 5 mila uomini e ragazzi yazidi uccisi subito e sepolti in decine di fosse comuni ancora da scoprire e scavare. Ovvio che i curdi approfitteranno delle cerimonie della vittoria nei prossimi giorni per enfatizzare il loro operato. Nel 2014 l’Isis era giunto a controllare quasi un terzo del territorio siriano e larghe parti dell’Iraq. Da dopo la battaglia di Kobane nel settembre-dicembre 2014 e grazie ai vitali aiuti militari americani, i curdi sono stati fondamentali per sconfiggere l’Isis. Quindi hanno espanso le loro zone autonome a spese delle regioni controllate da quest’ultimo. Oggi chiedono di essere ascoltati dalla comunità internazionale, proprio mentre Bashar Assad sostenuto da Russia e Iran cerca un’intesa con Ankara per riprendere il pieno controllo della Siria, inclusa la zona curda.