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 2019  marzo 24 Domenica calendario

Biografia di Pippo Delbono raccontata da lui stesso

Quando Pippo Delbono compì cinque anni fu buttato sulla scena di una recita parrocchiale. Paffuto e innocente, interpretava Gesù Bambino. «Ero infagottato in una veste gialla», ricorda. «Emozionato e dolorante. La sera prima inavvertitamente avevo appoggiato la faccia sulla stufa rovente. Il volto arrossato appariva gonfio, dandomi un aspetto innaturale. Quasi da teatro espressionista. Più tardi avrei compreso che recitare è mettere a nudo la propria vita, per affermarla o stravolgerla». E di vita Pippo Delbono ne ha riversata tanta nei propri spettacoli, che il pubblico gli restituisce con gli interessi lasciandosi coinvolgere da questo straordinario domatore di spettri. Qualche settimana fa ho visto La Gioia, il nuovo spettacolo – che poi nuovo non è – che oltre l’Italia toccherà altre parti del mondo. Una tournée che il regista e attore ha immaginato come un grande omaggio a Bobò, il suo amico ed alter ego che per più di vent’anni lo ha affiancato negli spettacoli. E l’ultimo, La Gioia appunto, lo ricorda con rispetto, devozione e commozione ma anche con paura e follia. Perché non vi è gioia senza la tristezza, non vi è vita senza che la morte non ne disegni i confini. Non vi è speranza senza il timore di perderla. Non vi è teatro, verrebbe da pensare, senza che un grande attore non immagini la propria morte.
Hai mai creduto di morire prima del tuo tempo biologico?
«Tante volte, ed è sempre stato un modo per ricominciare. Ma era come uccidere me, non il teatro. Non puoi essere mortale senza che qualcosa di immortale ti attraversi. È il segreto del teatro: muore sempre l’altro».
Si chiama sacrificio?
«Mi piace la parola sacrificio. Condensa il rito e la santificazione di un gesto. Tutto si ripete, ma è come se ogni volta fosse la prima».
La tua prima volta fu in un teatrino parrocchiale.
«Ero già larvatamente consapevole. Nel luogo più posticcio, goffo e dilettantesco stava nascendo un desiderio: raffigurarmi in un destino che non conoscevo e che mi avrebbe portato fin qui dove parliamo».
Siamo nel tuo camerino. Spoglio e triste. È così che ti senti dopo lo spettacolo?
«Mi sento come svuotato. Due ore di follia e di tensione, di corpi che si muovono e danzano, si urtano e si attraggono, di pensieri che volano tra gli oggetti che compongono la scena e di parole e musica che li accompagnano e poi la muta desolazione dell’uscita di scena».
E gli applausi, il successo, i riconoscimenti?
«Fanno parte del rituale. Gradevole quanto vuoi ma destinato a esaurirsi».
Non sei narcisista?
«Non penso di esserlo mai stato e sono troppo infelice per diventarlo ».
Infelice?
«È un periodo di grande squilibrio».
In scena parlavi di Bobò, della sua scomparsa e del modo in cui un uomo può cambiare un piccolo grande mondo come è quello in cui vivi.
«Bobò è morto il 2 febbraio: è stato con me vent’anni. Sai cosa vuol dire non averlo più accanto, davanti, dietro, in scena o fuori?».
Bobò era un diverso. In quale galassia vi siete incontrati?
«Era come se fosse arrivato da un altro mondo. Ma era finito nel manicomio di Aversa. Lì ci siamo incontrati la prima volta. Vidi un uomo già anziano, microcefalo e sordomuto. Comunicava con degli squittii, muovendo armoniosamente le mani. Mi colpì la facilità con cui sembrava entrare in contatto con il mondo. Mi pare fosse il 1995. Un paio di anni dopo riuscii a farlo uscire dall’ospedale psichiatrico. Ero convinto che la sola cura possibile per lui fosse il teatro».
Teatro come terapia?
«Non sapevo cosa esattamente volessi. Immaginavo questo signore come una parte importante della scena. L’essenzialità della sua comunicazione corrispondeva a una certa idea che avevo del teatro. Oltretutto, sembrava che fosse più lui a curare me che io lui».

Curarti per cosa?

«Le mie depressioni, i miei smarrimenti, gli eccessi di una vita sopra le righe e fuori dall’ordinario».
Il tuo teatro è fuori dall’ordinario.

«Predilige gli emarginati, i folli, i barboni, i rifugiati».
Non c’è il rischio della retorica?
«Ci sarebbe se pensassi a tutto questo con animo buonista. Ma ho un profondo rispetto per le persone che hanno visto o vedono la morte in faccia molto più da vicino di noi. Le immagino come dei Buddha che possono illuminare il nostro cammino».
Sei religioso?
«Da anni cerco di praticare il buddismo. Dopo che da piccolo ero stato cattolico».
Dove sei nato?
«A Varazze, in Liguria. Mia madre, cattolica e al limite del fanatismo, era maestra. Mio padre impiegato amministrativo all’ospedale. Nel tempo libero suonava il violino. Certe sere noi tre figli lo ascoltavamo. Poi un giorno vendette il violino. Disse: o si suona o non si suona. Intendeva dire o si è artisti o non ne vale la pena. Per lui fu la fine di un sogno. Noi ci sentimmo un po’ più liberi».
Liberi per fare cosa?
«Non potevo spiegare in cosa consistesse la libertà, ma sentivo che qualcosa stava cambiando. Ero pur sempre giudizioso e osservante. Ma dentro nuotavo in un mare di inquietudini. Che esplosero quando nei boy scout conobbi un ragazzo del quale divenni amico. Fu un’amicizia esclusiva che si trasformò ben presto in una forma d’amore».
Che anno era?
«Giugno 1978. L’Italia era impegnata nei Mondiali di calcio, mentre noi due ci sentivamo perfettamente soli e felici grazie a una libertà che non conoscevo e che stavo per la prima volta assaporando. Condividemmo tutto. Perfino le droghe. Poi Vittorio, era il suo nome, cominciò a bucarsi. Per un po’ lo seguii, salvo capire che quella strada ci avrebbe condotti all’autodistruzione».
Cosa facesti?
«Mi iscrissi a una scuola di teatro a Savona. Pensai di tradirlo nel solo modo per me accettabile: ossia con il teatro. Fu qui che un giorno venne un giovane maestro a darci lezione di tecniche del corpo. Era Pepe Robledo, un rifugiato argentino scappato dalla dittatura. I capelli lunghi e ricci lo facevano somigliare a Jimi Hendrix. Andammo insieme in Grecia dove avrebbe tenuto un seminario. Al ritorno appresi che Vittorio aveva avuto un incidente con la moto e che era stato ricoverato in coma all’ospedale di Genova. Morì dopo due mesi e pensai che nessuno aveva mai saputo nulla della nostra storia. Che ce l’eravamo tenuta tutta dentro e questo non faceva che aumentare il mio dolore e il senso di colpa per averlo abbandonato».
Come ne uscisti?
«Lasciai tutto. Famiglia. Paese. Università. Andai in Danimarca. Presi lezioni di acrobatica e di danza. Lavorai col gruppo Farfa, una derivazione dell’Odin Teatret. Poi cominciai a girare il mondo. Prima in Oriente: India, Cina e Bali. Poi il Sudamerica: Perù e Messico. Recitavo e imparavo dalla tradizione. Il dolore si era attenuato ma continuava il senso di insoddisfazione. Finalmente andai a Wuppertal per vedere il lavoro di Pina Bausch».
Cosa ti attraeva?
«Per me era un mito. Vidi il suo spettacolo Arien e ne restai sconvolto. Sognavo di poter lavorare con lei. Ma era difficilissimo parlarle. Non avevo soldi, mi ero accampato da certi conoscenti. Delle ferite a un occhio mi provocavano strane visioni. Come se guardassi il mondo immerso in un acquario. Finalmente riuscii ad ottenere un appuntamento».
Cosa accadde?
«Le raccontai del mio passato, dello spettacolo che avevo creato insieme a Pepe: Il tempo degli assassini. Delle volte che lo avevamo messo in scena. Le chiesi se voleva assistervi. Lo allestii per lei una sera, ma non venne. Ero deluso. Ce ne andammo per una tournée improvvisata, ancora in Sudamerica. Qualche mese dopo tornai a Wuppertal. Feci di nuovo lo spettacolo. E lei arrivò in sala che era già buio. Quando andarono via tutti, restò sola ad attendermi».
Cosa ti disse?
«Era colpita e mi chiese se restavo a lavorare con lei. Fu una bella esperienza. Col tempo cominciò a parlarmi sempre meno. Non era ostilità o indifferenza. Aveva un modo tutto suo di rapportarsi alla persone, anche a quelle cui voleva bene o che stimava. Mi guardava silenziosa con i suoi occhi azzurri. Trascorsero altri mesi e sapevo sempre meno quale sarebbe stato il mio futuro. Un giorno fu lei a dirmi: prendi la tua roba e vai per la tua strada. Qui soffri troppo».
Era vero?
«Ero disorientato e forse voglioso di sperimentare altrove. A quel tempo purtroppo scoprii di essere sieropositivo».
Lo scopristi in che modo?
«Tornando da un viaggio in Sudamerica con la febbre a quaranta. Pensavo di essermi preso la malaria. Il medico mi prescrisse una cura. Un altro, tempo dopo, mi comunicò che ero risultato positivo all’esame dell’Hiv».
Come reagisti?
«All’inizio ero disperato. Pregavo Dio e la Madonna. Consultavo tutti i medici possibili. Era un tempo in cui di Aids si moriva. Divenni buddista. Non perché volessi affidarmi a una religione. La ragione vera era un’altra».
Quale?
«Credo che dentro la vita di una persona ci siano capacità straordinarie che la nostra mente purtroppo non ci fa vedere. In certi momenti, possiamo essere nel profondo guaritori di noi stessi. Per me vivere con il buddismo significa mettere alla prova i limiti della mia mente».
Hai cercato di frequente questi limiti?
«Tutto quello che ho fatto – il teatro, il cinema, la scrittura, l’opera – è stato un mettermi alla prova. Estrarre dal cilindro dell’immaginazione una verità. Che è sempre diversa dalla sincerità».
Diversa perché?
«La verità è forma, rito, cerimonia. La sincerità è l’esperienza del vissuto. È l’onestà del racconto. Il teatro può fare a meno della sincerità ma non della verità».
Sembra quasi che tu possa fare a meno della sincerità.
«No, perché? La sincerità è l’aprirsi all’altro. Però ci si può sbagliare. Si può fraintendere cosa l’altro ci dice. La sincerità implica dei rischi. Ma è anche vero che tutte le strade hanno un cuore. E forse è proprio la morte che va vissuta con il cuore».
Cioè?
«Come il solo punto su cui verità e sincerità possono convergere. È un sentimento che ho ritrovato nei Vangeli».
“Vangelo” è una tua opera che hai portato a teatro e al cinema.
«Fu mia madre, poco prima di morire, a chiedermi di realizzare un’opera sui Vangeli. Ho temuto di farla. C’era il precedente di Pasolini. Ho molto amato il suo film, ma per realizzare il mio spettacolo l’ho dovuto dimenticare. Il Vangelo di Pasolini è quello di un uomo che crede. Io non credo nel Cristo che cammina sull’acqua, ma nel Cristo che sprofonda e rischia di annegare».
Un Cristo naufrago ti somiglia di più.
«Fu un uomo straordinario che non aveva bisogno dell’orpello dei miracoli».
A che punto è la tua malattia?
«Potrei dirti che è miracolosamente migliorata. Un maestro mi diceva: quello che ti è successo è la tua prova. Affrontala senza temerla. Non è stato facile. Perché ciò che è incurabile implica la sconfitta certa. Ma non c’è niente di certo o di definitivo. E quando ho realizzato questo pensiero ho sentito crescere in me la compassione. Mi accompagnava nelle parti più buie di me per poi farmi risalire più leggero e meno oppresso».
In tutti i tuoi spettacoli dai l’impressione di inseguire la vita come se ad ogni momento potessi perderla.
«Fare teatro con la vita è stato per me l’unico modo di rappresentarlo. Non potrei rapportarmi a nessuno che non sia anche parte di me. Vale per Pepe, per Gianluca, il ragazzo down anche lui straordinario interprete dei miei spettacoli. Vale, è ovvio, per Bobò. Per tutto quello che è stato nella sua straordinaria unicità».
Con quale immagine restituiresti questa unicità?
«Quando morì Pina Bausch, il festival d’Avignone mi chiese di ricordarla. C’erano in teatro duemila persone. A un certo punto Bobò entrò in scena. Pina aveva molto amato Bobò, lo guardava dal basso in alto per un senso di rispetto e di gratitudine, che in quelle forme non aveva mai provato per nessuno. Dalla platea si avvertiva lo stupore. Dopo un lungo silenzio, Bobò cominciò a parlare di Pina. Lo fece a suo modo, urlando e patendo. Non erano parole ma suoni di uccello. E poi le mani mimarono il battito delle ali. Infine alzò il dito indicando verso l’alto. Sarebbe divertente se in qualche parte del cielo i due potessero rincontrarsi».