Robinson, 24 marzo 2019
La tv secondo Freccero (in un libro)
Conosco Carlo Freccero da una ventina d’anni e ne sono un ammiratore sfrenato. Anche se recentemente, in un’invettiva indirizzata al Foglio, ha confuso Star Trek con Star Wars (si parlava di lato oscuro della forza, non del bar di Guerre Stellari, al quale credo entrambi ci sederemmo volentieri) le sue sinapsi restano un gorgo rigoglioso e affascinante che vale, per fascino ed effetti, l’assunzione sublinguale di una pastiglia d’ecstasy grande come il Galles. Debordista senza limitismo, Carlo non ha mai realmente sposato una tesi in vita sua. Esteta del reggipetto ai tempi de La Cinq, inventore della Italia 1 movimentista nell’era Mediaset (tipo Raitre, ma con le ragazze Fast Food al posto di Sandro Curzi), gauchista d’assalto nella Raidue di Santoro e Luttazzi, al solo scopo di vendicarsi dalla cacciata berlusconiana, oggi sovranista catodico sempre su quello che fu il secondo canale, interpreta di volta in volta l’onda dominante e la percorre a proprio esclusivo beneficio intellettuale in entrambe le direzioni. Quest’ultima, a favore di vento.
È un mentitore seriale e geniale. L’ho sentito incensare programmi oggettivamente orrendi, che ha poi (giustamente) abbandonato al loro destino subito dopo lo schianto. Talvolta poco prima. Ne ho ascoltato le citazioni ad minchiam solo per giustificare che mandava in onda Alda D’Eusanio al pomeriggio e Marco Paolini la sera. Ho contato il numero infinito di parenti, sempre gli stessi, che abbandonavano questa Terra e gli impedivano di presenziare a questa o quella riunione. Gli ho visto scolpire nella roccia concetti che ha abiurato dodici secondi dopo. Per amore di performance. Come quella volta che finse di lanciarsi nel vuoto pur di convincere Maurizio Crozza a fare Quelli che il calcio. Ben sapendo che c’era un terrazzino subito sotto. Freccero è Carmelo Bene senza il parrucchino.
E sa come gestire i collaboratori: bastone e carota, cioè la carota usata come bastone. Così, nella pura tradizione dei libri scritti da un giornalista e firmati dall’intervistato, ha dato alle stampe questo Fata e strega, dedicato alla tv, che recensisco come farebbe lui: avendone letto solo stralci. Perché quelle righe sono più che sufficienti a tramandare il mito, la recita a soggetto basata su solide realtà, tipo Roberto Carlino senza rogiti, al servizio di un credo del tutto incidentale il quale è, al momento, la cosiddetta frattura tra popolo ed élite. Un concetto estenuato da un vortice ipnotico nel quale si desume che (riassumo e traslittero in italiano comprensibile persino a me): Usa brutti, Europa brutta, J.P. Morgan brutto, Renzi brutto, democrazia rappresentativa brutta, democrazia diretta bella, maestro Manzi bello, Don Milani bello, Che Guevara bello, popolo bello, populismo bello, socialismo bello.
Una serie di affermazioni, per quanto nobilitate dal consueto tourbillon di garanti intellettuali, da Adorno in giù, cioè mica cotiche ( no jerks), che potrebbero risultare un filo contraddittorie se solo si pensasse che provengono dal direttore di una delle più grandi aziende editoriali italiane, cioè un potente, sempre ottimamente remunerato, e a pieno titolo, che da alcune decine di anni decide cosa devono guardare gli italiani in un contesto che, a un primo e sommario esame, non parrebbe propriamente fondato su basi marxiste, sulla teologia della liberazione, su una rivoluzione socialista o su un programma di alfabetizzazione di massa, anche se Non è mai troppo tardi, condotto negli anni Cinquanta proprio dal maestro Alberto Manzi, a Toninelli farebbe un gran bene.
La contraddizione è però nell’occhio di chi legge. Perché, appunto, il recital di Carlo Freccero rappresenta semplicemente un momento teatrale nel quale palco e realtà si sfiorano in magica armonia, e come tali vanno presi. Sperando che si arrivi prima o poi all’atto ultimo e sublime, quello in cui il nostro riesce a sostenere tesi opposte, con identica credibilità accademica, dibattendo completamente da solo. Forse nel prossimo libro. Per cui mi permetto di suggerire, a mo’ di titolo, il verso di uno tra i più efficaci poeti contemporanei: «Tra popolo ed élite è lo stesso, basta che ci sia posto».