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 2019  marzo 24 Domenica calendario

Montanelli ridotto in pillole

Berlinguer? “Il vero uomo”. Craxi? “Il guappo di cartone”. Pertini? “Il brav’uomo pittoresco”. Ciampi? “L’uomo straniero che non olet di palazzo”. Ha l’eccellente merito di illustrare l’attualissimo tema del Carattere quest’ultimo accanimento editoriale su Montanelli. Il Carattere fu infatti il suo codice, la sua ossessione, la pulsione che il 2 giugno del 1977 lo spinse ad appoggiarsi alla cancellata – «Se devi morire, muori in piedi!» – e perciò lo salvò: «Davanti a questi vigliacchi mi reggo dritto con la forza delle braccia. E quello continua a sparare e a centrare le mie zampe di pollo. Se mi fossi accasciato, se mi fossi inginocchiato davanti a lui, a quell’ora sarei morto». Ma davvero esiste il carattere degli italiani? Scrisse Croce: «Qual è il carattere di un popolo? La sua storia: tutta la sua storia e nient’altro che la sua storia». Montanelli credeva, con Prezzolini, nel famoso codice della vita italiana: «I cittadini italiani si dividono in due categorie: i furbi e i fessi...». Su Avvenire, qualche giorno fa, Goffredo Fofi ha ricordato l’ironia di Salvemini: «Tanti mi dicono che noi italiani siamo fatti così…, ma io sono italiano, e non sono fatto così».
Così come? Per Montanelli, Salvemini “era” il suo carattere: «Il pensiero di un uomo non si può capirlo che alla luce del suo carattere. È il carattere che determina le idee e non viceversa». Gramsci nei Quaderni elenca, tra i caratteri del popolo italiano, la apolicità riottosa, la troppa ammirazione per l’intelligenza, il sesso persino. Ed è catalogo dei caratteri italiani anche quello di Sciascia: uomini, mezz’uomini, ominicchi, pigliainculo e quaquaraquà. Montanelli pensava che il carattere degli italiani fosse quello dell’otto settembre, quello di Sordi in Tutti a casa: «Per quanto abusata, la frase di D’Azeglio – l’Italia è fatta, bisogna fare gli italiani – rispondeva al vero. E fare gli italiani si doveva rivelare impresa molto più difficile che fare l’Italia». D’Azeglio «è il mio ideale modello – ripeteva Montanelli – perché solo D’Azeglio degli italiani aveva visto e compreso troppo per credere all’Italia». E infatti attribuiva l’entusiasmo popolare che suscitava Garibaldi «al carattere del popolo italiano che ama più le apparenze della sostanza e si lascia impressionare soltanto dalla teatralità dei gesti e delle parole».
Cialtroni è dunque un appropriato titolo per questa ennesima raccolta che sottolinea la grandezza di Montanelli nel momento stesso in cui la riduce. In attesa che pubblichino le ricevute del suo dentista, a sua insaputa Montanelli è infatti autore di questo bignami del suo proprio pensiero, ben strizzato da Paolo Di Paolo per Rizzoli. Sono articoli scritti tra il 1996 e il 2001 che è l’anno della morte, dunque tra gli 85 e i 90, un’età che rese più profonda la solitudine che alimentava il pessimismo radicale di un provinciale giramondo: «L’Italia è finita. O forse, nata sui dei plebisciti burletta come quelli del 1860-61, non è mai esistita che nella fantasia dei pochi sognatori, ai quali abbiamo la disgrazia di appartenere. Per me non è più la Patria. È solo il rimpianto di una patria». State attenti: qui c’è l’ammissione amara, in vecchiaia, di essere stato sognatore. Ma purtroppo in questa antologia di caratteri non c’è il fascista Berto Ricci che lo fece sognare: «fu il mio solo maestro di carattere», prima di entrare «per sempre nella compagnia dei grandi scettici cioè di coloro a cui si deve il bel capolavoro che tutti vediamo». Ho buone ragioni per credere che a Montanelli non sarebbe piaciuto essere misurato (solo) con il metro degli aforismi: «Sono per definizione brevi e l’italiano li preferisce ai lunghi libri che non frequenta». In quegli anni spesso gli capitava di scrivere di eutanasia e di dignità della morte. E le risposte che dava ai lettori gli servivano per dialogare con i suoi fantasmi. Qui ci sono due interviste immaginarie ma verosimili: Nenni spiega perché il socialismo non è stato solo tangenti e Andreotti spiega perché «invece di combattere la mafia me ne sono servito». C’è Salvemini (vero) che si pente di aver definito Giolitti “ministro della malavita”. E sono elogiati i caratteri della Jotti, di Ugo La Malfa, di Togliatti persino. Disprezza Moro che delle Br ha paura: «umana e perdonabile a tutti, meno a chi incarna lo Stato». E lascio al lettore tutti gli altri, sino a Bossi, D’Alema, Berlusconi e Prodi. A Montanelli, che però il giorno del vaffa day (2007) era morto da sei anni, piaceva Grillo, “comico, moralista e predicatore insieme”, al punto da fingere comprensione per la miseria dei censori che lo stavano cacciando dalla Rai: «Chissà forse è meglio che rimanga off limits, per il suo stesso bene». E qui l’editore, con furbizia furbissima, ammicca e ordina a Grillo una postfazione chiamata postsberleffo. Non più comico né moralista né predicatore, il postGrillo vi esibisce (certifica) la sua attuale quarta dimensione, quella del malinconico tramonto, la leggerezza e lo smarrimento della foglia morta. Capisco che qualcuno l’abbia presa male denunziando la sottrazione di cadavere, che è però il comune destino dei grandi, i quali appartengono a tutti e a nessuno.
Montanelli è stato infatti la mano destra del giornalismo nel Novecento. La sinistra è Eugenio Scalfari. I due, nemici-amici, si detestavano, per dirla alla Montanelli, nella stessa misura in cui si somigliavano: il ghibellino bianco e il ghibellino nero, irriducibili e assediati da servizievoli cloni ai quali hanno sempre preferito gli avversari, non gli insultatori e i quaquaraquà, ma la gente con cui ci si intende anche quando ci si morde. E chissà come sarebbe andata se avessero fatto quel quotidiano che un giorno progettarono insieme. Ma questa è un’altra storia.