Robinson, 24 marzo 2019
Il trattato di Nimega
Nel 1678 e nel 1679 Nimega ospitò delegati da decine di paesi europei e città-stato per porre fine a una serie di guerre che avevano devastato il nostro continente. Il trattato di pace di Nimega ha posto termine a varie guerre connesse fra loro in corso tra Francia, Olanda, Spagna, Brandeburgo, Svezia, Danimarca, il vescovato di Münster e il Sacro romano impero (…).
Più di duecentocinquant’anni passarono fra il trattato e il 1945, ma possiamo dire che l’utopia nata a Nimega fu realizzata alla fine della Seconda guerra mondiale. È ragione di continuo compiacimento per le persone della mia generazione rendersi conto ( mentre per i nostri figli e nipoti si tratta di accettare una idea ovvia) che oggiè inconcepibile (se non ridicolo) pensare a una possibile guerra tra Francia e Germania, Italia e Gran Bretagna, Spagna e Paesi Bassi. Una persona giovane – se non è uno studente o una studentessa di storia – non può concepire che un tale tipo di conflitti era la norma negli ultimi duemila anni. (…). Dal 1945 in poi, quasi senza accorgersene, ogni europeo iniziò a sentire di appartenere non solo allo stesso continente ma alla stessa comunità, nonostante le molte inevitabili differenze linguistiche e culturali. Io non sono un candido idealista e so molto bene che se gli europei non si sparano più gli uni contro gli altri, ci sono però molte forme di competizione non meno violenta che spesso dividono i nostri paesi (…). Forse il senso di un’identità europea non ha la stessa forma e la stessa evidenza per tutti i cittadini delle varie nazioni, ma almeno tra i cittadini più responsabili, e in particolare tra i giovani più colti, l’idea di essere europei è sempre più diffusa. (…).
Infinite sono le ragioni per cui un francese può pensare in modo diverso da un tedesco, ma entrambi sono stati plasmati da una serie di esperienze comuni, dalla ricchezza conquistata attraverso controversie sul lavoro, piuttosto che con un’etica individualista del successo, al vecchio orgoglio e poi al fallimento del colonialismo, per non parlare dell’esperienza di dittature terribili. Siamo stati vaccinati dall’esperienza di molte guerre sui nostri territori: a volte penso che se due aerei si fossero schiantati contro Notre Dame o contro il Big Ben, saremmo stati certamente devastati, ma senza il senso di inspiegabile stupore, disperata incredulità e sindrome depressiva che ha colpito gli americani per essere stati attaccati da un nemico in casa propria, per la prima volta nella loro storia. Le nostre tragedie ci hanno reso saggi e spietati, più preparati ad affrontare l’orrore. Cerchiamo la pace perché abbiamo conosciuto troppe guerre. Ma dobbiamo essere realisti e riconoscere che, nonostante tutto ciò, l’Europa sta ancora vivendo guerre, odio e intolleranza all’interno dei suoi confini. (…). Siamo ancora, dentro le nostre frontiere, coinvolti in una forma di guerra ( a volte sotterranea) con persone che vivono in Europa ma che noi (o almeno molti dei nostri connazionali) consideriamo non europei (o, come in alcuni paesi usano dire, come extracomunitari).
Il problema che interessa oggi un’Europa pacificata, che possa celebrare ottimisticamente il trionfo dello spirito del trattato di Nimega, è poter firmare un nuovo virtuale trattato contro l’intolleranza. La lotta contro la nostra intolleranza non riguarda solo i cosiddetti “extracomunitari”: è una forma di illusione considerare i nuovi casi di antisemitismo come una malattia marginale che riguarda solo una frangia impazzita della società. (…). Dobbiamo dichiarare guerra al razzismo. Se non saremo in grado di sconfiggere questo eterno avversario saremo sempre in guerra, anche se abbiamo messo le nostre armi in soffitta (…). Tuttavia la lotta contro l’intolleranza ha i suoi limiti. Combattere contro la nostra intolleranza non significa dover accettare ogni visione del mondo e fare del relativismo etico la nuova religione europea. Mentre educhiamo i nostri concittadini e in particolare i nostri figli a una tolleranza aperta, dobbiamo allo stesso tempo riconoscere che ci sono abitudini, idee, comportamenti che sono e devono restare per noi intollerabili. Ci sono valori, tipici della visione del mondo europeo, che rappresentano un patrimonio cui non possiamo rinunciare. Decidere e riconoscere ciò che, pur in una visione del mondo tollerante, rimane intollerabile per noi è il genere di confine che gli europei sono chiamati a tracciare ogni giorno, con senso di equità e con il costante esercizio di quella virtù che, da Aristotele in poi, i filosofi chiamano Prudenza. Dal punto di vista filosofico, prudenza non significa riluttanza a rischiare, e non coincide con la codardia. Nel senso classico di phronesis, la prudenza è capacità di governare e disciplinarsi mediante l’uso della ragione, e come tale è stata considerata una delle quattro virtù cardinali ed è spesso associata a saggezza e intuizione, alla capacità di giudicare tra azioni virtuose e viziose, non solo in senso generale, ma con riferimento alle azioni opportune in un dato tempo e spazio. Deve essere possibile, nel corso della nostra comune guerra all’intolleranza, essere sempre in grado di distinguere tra il tollerabile e l’intollerabile. Deve essere possibile decidere come accettare una nuova pluralità di valori e abitudini senza rinunciare al meglio del nostro patrimonio europeo. Non sono qui oggi per proporre soluzioni al problema fondamentale di una nuova pace europea, ma per affermare che solo affrontando la sfida di questa guerra ubiqua avremo davvero un futuro di pace. Dobbiamo firmare oggi un nuovo trattato di Nimega.