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 2019  marzo 24 Domenica calendario

La corsa al reddito è degli stranieri

Poco ai giovani, molto agli immigrati: il reddito di cittadinanza sembra andare in direzione opposta rispetto alle previsioni del governo. Dalle prime elaborazioni della Consulta Nazionale dei Caf emerge infatti che gli under 30 sono solo il 6,8% dei richiedenti, mentre la quota degli stranieri è del 9,5%, con un picco al Nord del 15,4%. Si tratta di percentuali che non rispecchiano la composizione della popolazione residente in Italia. Infatti anche se è vero che i giovani con meno di 30 anni sono diminuiti e l’anno scorso, per la prima volta, sono stati superati dagli over 60, rappresentano però pur sempre il 28,4% della popolazione, dunque almeno quattro volte la percentuale dei richiedenti al momento.
Al contrario, la quota dei richiedenti stranieri è leggermente superiore alla percentuale dei residenti rispetto alla popolazione italiana, che non arriva al 9%. «Il reddito di cittadinanza è stato concepito per i cittadini italiani», ha dichiarato più volte il vicepremier Luigi Di Maio, per frenare le pressioni degli alleati leghisti. Per limitare il numero di domande degli stranieri è stato posto il vincolo della residenza da dieci anni, ma evidentemente questo ha frenato solo in parte le richieste. E non si può dire che questo risultato rappresenti una sorpresa, visto che nel corso delle audizioni parlamentari l’Istat aveva previsto una percentuale dell’ 11,5% di richiedenti stranieri, l’Inapp del 12,4% e la stessa relazione tecnica il 12,6%. Percentuali più alte che potrebbero riflettere la realtà: i dati dei Caf sono infatti provvisori, si riferiscono alle prime 500.000 domande, a due settimane dall’entrata in vigore della misura, e a 10 città campione (Torino, Milano, Venezia, Livorno, Grosseto, Roma, Napoli, Cosenza, Bari e Palermo). Il problema è che, su cinque milioni di persone in povertà assoluta, 1,6 milioni sono stranieri. E che gli stranieri, spiega Enrico Di Pasquale, ricercatore della Fondazione Leone Moressa, spesso sono poveri anche nel caso in cui abbiano un lavoro: «Hanno in prevalenza un reddito inferiore alla media, perché si collocano in fasce professionali di bassa qualifica: sono operai, impiegati domestici, braccianti agricoli. Il paletto della residenza da dieci anni alla fine è risultato di scarsa rilevanza, perché gli stranieri in Italia in genere sono residenti da oltre dieci anni, dopo la crisi del 2008 ne sono arrivati pochi, e comunque una parte importante sono dell’Unione Europea, i soli romeni sono il 20%».
Ha una risposta logica anche la domanda sul perché così pochi giovani, visto che siamo il Paese dei Neet ( definizione statistica che indica chi non studia, non lavora e non svolge un’attività di apprendistato). La risposta più immediata è nelle norme che regolano il reddito di cittadinanza, che non considerano la singola persona, ma la famiglia, le entrate complessive. I minori di 26 anni vengono considerati figli a carico, chi ha più di 26 anni non viene considerato a carico solo nel caso in cui abbia un reddito superiore ai 2840 euro annui. In Italia oltre l’ 80% dei giovani in quella fascia di età vive in famiglia. Se li si voleva incoraggiare ad andar via di casa, le norme andavano scritte in un altro modo. Soprattutto se si considerano le condizioni dei giovani nel mercato del lavoro: anche quando hanno un impiego, osserva in uno studio pubblicato su Neodemos Ugo Trivellato, professore emerito di statistica all’Università di Padova, le loro carriere sono estremamente discontinue. Da un’analisi sui primi otto anni di occupazione ( e si sta parlando dei fortunati, perché il tasso di disoccupazione dei giovani supera di tre volte e mezzo quello del resto della popolazione) emerge una “mobilità molto alta”, espressione che sottintende che i contratti durano poco, e che fasi di lavoro e di stasi si alternano con una certa frequenza. Quindi i giovani rimangono a casa dei genitori e, tranne un ristretto gruppo, non chiedono neanche il reddito di cittadinanza. Soprattutto al Nord, dove la quota degli under 30 scende al 4,7%, contro il 3,2% del Centro e il 10,3% del Sud (dove però la quota dei giovani che vive con i genitori è anche più alta).