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 2019  marzo 24 Domenica calendario

Intervista a Claudio Bisio

Ha 62 anni, compiuti cinque giorni fa, eppure sul piano fisico non ne dimostra nemmeno cinquanta (“a vent’anni mi scambiavano per un quarantenne, quindi pareggio”), anche meno come impronta di vita e stile genitoriale: “A volte i miei figli mi guardano come il primogenito del Perozzi in Amici miei, con un’espressione tra lo stupito e lo sconcertato, della serie: ma che combina papà?”.
Quando parla sorride spesso, e spesso arriccia “quel naso triste come una salita. Quegli occhi allegri da italiano in gita”, parola di Paolo Conte nella sua Bartali; e come Bartali qualche salita l’ha scalata (“All’inizio apparivo talmente adulto che in compagnia teatrale dicevano: ‘Non potrai mai diventare un protagonista, al massimo un caratterista’”). Eppure il solo 2019 recita: protagonista della massima espressione nazional-popolare (Sanremo) e ora in sala con Bentornato Presidente, sequel di Benvenuto Presidente, film del 2013 in grado di superare gli otto milioni e mezzo d’incasso. Rarità in questi anni di lacrime. Frank Matano spiega: “Claudio ha la capacità unica di annusare l’aria e dettare i tempi: se c’è un clima non positivo, sa come invertire la rotta, come convogliare le energie”.
È descritto da leader. 
Davvero lo ha detto?
Sì.
Mi fa molto piacere e credo sia vero, anzi è una delle qualità che mi riconosco. Oddio, non del leader, ma di capire cosa accade intorno a me.
Punto di forza.
Il timing è fondamentale, il senso del ritmo, capire quando è il momento di smetterla e quando di darci dentro, magari di aumentare i giri.
Nella vita o sul palco?
A volte le situazioni si possono confondere. Comunque con Frank mi trovo benissimo, insieme siamo perfetti: a Italia’s Got Talent siamo ai vertici del tavolo di giuria, quindi lontani, eppure ci capiamo senza neanche guardarci.
Tra di voi c’è una bella differenza di età.
Lui 29 io 62 anni, i suoi genitori sono più giovani di me, ma possediamo un linguaggio comune, ci scambiamo le reciproche passioni culturali.
Quali?
Gli parlo di Bertolt Brecht o Dario Fo, quindi cose antiche, lui risponde con gli stand up statunitensi che, beato, riesce a guardare in inglese. Di questo lo invidio tantissimo.
Dolori con l’inglese?
A scuola ho studiato francese, secondo i miei doveva diventare la lingua del futuro. A quei tempi ci sono caduti in molti.
Torniamo al timing…
Molto lo devo ai quindici anni di conduzione a Zelig, quel palco è stata una grandissima scuola, a volte vampirizzavo la scena, in altri casi restituivo linfa ai colleghi: secondo alcuni comici, senza di me non sarebbero mai riusciti a venir fuori.
Non tutti.
Checco Zalone o Ficarra e Picone erano bravi a prescindere dal mio contributo, parliamo di fuoriclasse.
È disciplinato?
Ho l’ascendente Vergine.
Sua moglie la definisce “irruento, disordinato e sempre in ritardo”.
Disordinato sì… (subito ci ripensa). Non è vero, lo dice lei, perché sostiene che i miei cassetti sono il caos, eppure trovo tutto, quindi si lamenta inutilmente.
Beghe da coppia.
E non ho mai mancato un appuntamento, non mi preparo prima, non sono uno che anticipa mostruosamente i tempi, arrivo all’ultimo, la valigia la compongo in dieci minuti.
Dinamiche.
Odio aspettare gli altri e odio arrivare in anticipo.
Cos’è importante sul lavoro?
Quando sei in tournée la disciplina è fondamentale, altro che nottate in bianco, sesso occasionale o droghe. Quelle sono leggende. E l’ho capito grazie agli Elii (Elio e le storie tese).
Professionisti seri.
Mi hanno sconvolto: un’estate sono stato con loro in giro per l’Italia, e il soundcheck era alle 16.30, poi cena alle sei e mezzo con davanti una bistecchina e l’insalata. E tutti a letto.
Tristezza.
L’anno dopo, impegnato da solo in una tournée teatrale, ho applicato le stesse regole, con l’intera troupe che mi guardava come un matto, quasi passavo d’antipatico perché non partecipavo alla liturgia del gruppo.
Vergassola narra che ai tempi del Derby finivate lo spettacolo e con Paolo Rossi vi sfogavate in interminabili sedute di biliardino.
Poi ripartiva di notte, tornava in Liguria, dormiva poche ore e la mattina stava al lavoro. Comunque ho passato anni di albe alterate, ma da sposato e con i figli si cambia, sono fasi normali della vita ed è folle ostinarsi nel voler mantenere immutate le dinamiche.
Cos’altro ha imparato negli anni?
Saper ascoltare, mi piace e serve. Purtroppo non so fingere quando non sono interessato, chi mi conosce sgama i tic involontari.
Quali sono?
Magari chiudo un occhio, poi guardo un punto nel vuoto, infine trattengo il classico sbadiglio.
Per molti suoi colleghi un attore deve essere un ladro.
Penso di sì, forse lo diceva anche Dario Fo; oramai l’inedito assoluto non esiste più, l’arte è renderla tua, e sotto qualche angolatura è un modo per mantenere in vita una creazione, per non dimenticare delle suggestioni.
Quasi un omaggio.
Uno dei miei sogni è quello della cover comica, esattamente come accade per la musica: portare su un palco una serie di comici che interpretano pezzi storici di colleghi del passato, una sorta di antologia della risata.
Ha studiato al Piccolo. Strehler lo ha conosciuto?
No perché ero iscritto alla Civica scuola d’arte drammatica del Piccolo di Milano: pochi anni prima c’era stata una rivolta e Strehler l’aveva quasi rifiutata.
Per Frassica la platea di Sanremo è la peggiore.
Invece a me è piaciuta, e pensare che tutti mi avevano preparato: “Occhio, è un pubblico difficilissimo”. In realtà no, temo solo la platea annoiata e silente, quella che spesso trovi alle prime, dove l’atteggiamento è quello di arricciare il naso.
Più difficile commuovere o strappare una risata?
In teatro il più grande complimento è quando dicono: “Lo vedi? non c’è un colpo di tosse”, vuol dire che il pubblico è coinvolto ed emozionato.
È così?
Non voglio diventare cinico, ma tutte le volte che ascolto questa espressione, penso: “Che cazzo ne sai? Magari stanno dormendo”.

Quindi?
La risata è vera, non puoi bluffare e se c’è ti arriva una scarica di piacere.
Se non c’è?
Si apre una lacerazione nel corpo, ti sotterreresti. Per fortuna mi è capitato poche volte e fuori dal palco scatta il vantaggio del cinema.
Protetti dallo schermo.
Dai film mi sono arrivate delle sorprese rare, con risate clamorose su punti che ritenevo bassi, e silenzi su passaggi per me basilari. Per questo mi piazzo dietro le quinte, voglio capire.
Sbircia.
La sera del sabato o il pomeriggio della domenica mi nascondo e resto.
Domanda anche gli incassi?
Ogni mattina controllo perché sono esercente, sono socio dell’Anteo di Milano (un multisala cinematografico), e alle otto meno un quarto mi arriva il resoconto.
Non sempre roseo.

Quest’anno il cinema italiano è stato una tragedia. Speriamo con Bentornato presidente.
Permalosi i politici?
Meno di quanto si possa immaginare, a volte il loro ego viene solleticato dall’attenzione, chi si offende di più sono gli uffici stampa e chi li segue, sono loro a rompere le palle.
Con Salvini non è proprio andata così.
Una volta ci siamo conosciuti nel programma di Bruno Vespa, entrambi invitati per presentare Benvenuti al sud, e creare una contrapposizione.
Riuscita?
Tutto conciliante, gli era pure piaciuto il film.
Ha dichiarato: “L’espressione ‘società civile’ non mi piace”.
L’ho detto?
A quanto pare.
Non mi ci riconosco, poi a volte me ne esco con cazzate, in altre ci sono questi social che rilanciano l’impossibile, distorcono e pretendono pure il ruolo di Cassazione della verità.
Non li ama.
Per niente, infatti cerco di sottrarmi il più possibile.
I suoi maestri?
Ne esistono di consapevoli e di inconsapevoli, ma il primo che mi viene in mente è sempre Dario Fo, a lui devo veramente molto (inizia a muovere le mani, cambia espressione del viso, arriccia le palpebre).
Conosciuto?
Negli anni Settanta, quando ha partecipato all’occupazione del mio liceo scientifico, e così, con la leggerezza tipica dei ragazzi e la complicità del professore di Lettere, lo abbiamo invitato in aula.
Lui si è presentato.
E ha regalato ore di magia, e una disponibilità non comune: credeva nella condivisione, nella possibilità di incidere, di suggestionare con la bellezza dell’arte; per lui non c’era un pubblico alto e uno basso, ma solo persone con le quali interagire. Ecco, questo per me è il concetto di società civile.
E poi?
Ho iniziato a seguirlo in teatro, da semplice spettatore, dieci anni dopo ero con lui sul palco e cercavo di assorbire ogni sfumatura.
Oltre a Fo?
Paolo Rossi: ha quasi inventato il cabaret a teatro, ed è un amico e artista unico, un fuoriclasse che ancora oggi non smette di sperimentare, di rischiare. Ha coraggio.
Sottovalutato?
Non lo so, la sua è stata ed è una scelta coerente: ha preferito il teatro alla televisione e al cinema, e non è semplice, soprattutto per una questione economica. Lo ammiro veramente molto.
Ha salvaguardato il fanciullo che è in lei?
Per questo alcuni mi accusano di essere un pirlone, a volte i miei figli mi guardano con espressioni di sgomento.
Genitore amico.
Lo so, è sbagliato, è un errore clamoroso, ma chi se ne frega, non riesco a essere autoritario e non amo neanche la parte dell’autorevole: non controllo i cellulari, non pongo la stessa domanda per scoprire l’errore. Diciamo che do fiducia e oggi posso dire che mi è andata bene.
Cosa ha acquistato con i primi soldi guadagnati?
Una chitarra Yamaha: allora suonavo, ero uno di quei ragazzi da spiaggia, anche io mi sono illuso che servisse per rimorchiare, invece, come nel più classico dei casi, gli altri conoscevano, mentre io finivo l’alba a cantare Guccini. Magari da solo.
Era comunista?
Sì. Credevo nella comunione dei beni, nell’avere pari stipendio e tutto il percorso correlato…
Oggi?
Qualcosa dentro di me è cambiato dopo aver conosciuto Kledi Kadiu ai tempi di Zelig: era scappato dall’Albania e ne abbiamo parlato e discusso a lungo, io con i miei ideali, lui con la sua storia vissuta.
L’Albania era il paese meno comunista.
Cambogia e Cina non sono stati molto differenti. Anzi peggio.
“Bella ciao” la canta ancora?
È l’inno dei partigiani che ci hanno liberato, quindi sì, la canterò per sempre. E per sempre mi emozionerà.