Il Sole 24 Ore, 24 marzo 2019
Il dilemma dell’estinzione della specie
David Benatar è un filosofo analitico sudafricano, libertario, vegano, antinatalista, eticamente contrario alla libertà procreativa, abortista (in realtà, né proscelta, né provita, ma promorte), pessimista e filantropo (ama a tal punto la specie che predica la nostra estinzione). I suoi argomenti non sono banali. Quanto possano far presa è un’altra questione.
Egli sostiene che venire al mondo non è un bene, ma sempre un danno per chi subisce tale scelta. Credere che vivere sia meglio, in quanto i benefici supererebbero i danni, è sbagliato, perché esiste uno scenario migliore. Quello di non esistere.
Per le persone che esistono 1) il dolore è sempre qualche cosa di male, e 2) il piacere qualcosa di buono. D’altro canto, in uno scenario dove non si esiste, 3) l’assenza di dolore è sempre buona (lo è indipendentemente dal fatto che le persone esistano o no), mentre 4) l’assenza di piacere è indifferente. Dall’asimmetria fra 3 e 4 – la sofferenza è un danno intrinseco, ma l’assenza di piacere non lo è – Benatar ricava alcune tesi. Poiché il dolore è sempre male, c’è un dovere morale di non mettere al mondo persone che soffriranno (segue da 3). D’altro canto, non c’è alcun obbligo di mettere al mondo persone che saranno felici (segue da 4). Quindi la mancanza di sofferenza è sempre buona, indipendentemente dal fatto che qualcuno esista o meno per godere di tale assenza; mentre la mancanza di felicità non è sempre male. Lo è solo se esistono persone a cui è negata. Ergo non esistere è la condizione migliore.
È un errore pensare che dobbiamo fare figli in quanto trarranno benefici dall’esistenza. Sarebbe più coerente dire che non dovremmo avere figli perché saranno danneggiati dal venire al mondo. Chi è vivo può essere portato a giudicare bene o male avere figli, ma non essere nato non è una privazione per coloro che non sono mai venuti al mondo. Perché l’assenza del dolore conta di più dell’assenza di piacere. La principale fallacia nell’argomentazione di Benatar è che tratta la condizione di non esistere come se fosse paragonabile in qualche modo a quella di essere in vita. Mentre per definizione è solo una costruzione concettuale che serve precisamente sostenere che è una disgrazia essere al mondo.
Benatar dedica un accorato capitolo alla sofferenza nel mondo, che a lui pare un argomento forte, oltre a quello logico, per non fare nascere altre persone. Non solo malattie, ma soprattutto la morte. Il nostro non è un nichilista, ma solo un pessimista radicale, per cui la morte, che mette fine all’esistenza, non è la soluzione delle sofferenze. La non esistenza non nuoce a una persona che potrebbe nascere, mentre la morte è un altro danno che colpirà chi è al mondo. Le persone che scelgono di suicidarsi devono sapere che tale scelta è dolorosa e causa sofferenze a chi rimane. Non ci sbagliamo, quindi, se diciamo che siamo contenti di essere nati, ma ci sbagliamo se pensiamo che sia stato meglio nascere.
Benatar non pensa che si debba interferire con le libertà riproduttive garantite dalla legge, ma sostiene che non vi siano basi morali per portare avanti una gravidanza. Pur essendo la vita una condizione dannosa, siamo indotti dai nostri geni a ingannarci e credere il contrario, per il fatto che ciò è funzionale alla sopravvivenza e alla riproduzione. Le affermazioni che si ascoltano dalle persone su quanto sia bella la vita vanno prese con scetticismo, come le elucubrazioni dello schiavo che afferma di preferire la schiavitù.
Per il filosofo sudafricano sarebbe eroico se le persone smettessero di avere figli in modo che nessuno potesse soffrire in futuro. Si potrebbe giudicare tragico lasciare che la specie umana si estingua, ma una tale tragicità scompare se vediamo le cose dal punto di vista di chi non esiste. La selezione naturale ci ha dotato di un bias di ottimismo circa la condizione personale, a cui fa da contrappasso dialettico il pessimismo sulle sorti del mondo.
Benatar cerca di smontare gli ostacoli cognitivi, emotivi e culturali che ognuno di noi usa per giudicare la vita come degna di essere vissuta, ovvero come preferibile alla condizione di non essere venuti al mondo. Come gestire la difficile situazione nella quale ci troviamo? L’ottimismo pragmatico al quale ci affidiamo come a una sorta di placebo, per far fronte alla desolazione della vita, è una strategia rischiosa per l’equilibrio mentale. Meglio il pessimismo pragmatico, che prende atto dell’orrore della vita umana, ma guarda oltre e non si impegna in progetti che illudono di valorizzare o creare significato per l’esistenza umana sulla Terra – dato che la vita, come spiega la biologia evoluzionistica, non ha alcun senso né significato. Il pessimismo pragmatico consente di distrarsi dalla realtà, senza nasconderla.
La distinzione tra ottimismo e pessimismo pragmatici, nonché tra rifiuto e distrazione è ambigua. Si colloca a metà strada in un continuumtra «ottimismo illusorio e pessimismo suicidario». Come i malati terminali, dovremmo affrontare la morte imminente se essere così ossessionati da rinunciare a passare il tempo con i nostri amici e familiari. Possiamo migliorare la nostra situazione in qualche modo e farlo «è l’equivalente esistenziale delle cure palliative».