Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2019  marzo 24 Domenica calendario

Quando l’austerità è di successo

In un libro del 1977, James Buchanan e Richard Wagner chiarirono che le «conseguenze politiche di Lord Keynes» non riflettevano la capacità della macroeconomia keynesiana di spiegare effettivamente il funzionamento della società. Nell’era prekeynesiana, gli Stati magari non avevano il bilancio in pareggio, si indebitavano per fare la guerra, ripagavano i creditori con tutti i trucchi noti all’epoca, ma periodicamente cercavano di tornare a una condizione di equilibrio dei conti pubblici. Indipendentemente da quel che pensava il Keynes della storia, il Keynes della fede è stato invocato per rendere normale ciò che prima era inimmaginabile: il ricorso costante all’indebitamento, per finanziare una spesa pubblica perennemente in crescita.
Alberto Alesina, Carlo Favero e Francesco Giavazzi ricordano saggiamente che «quando John Maynard Keynes scriveva, le dimensioni dell’apparato statale (...) erano solo una frazione di quelle che sono oggi». In tempo di pace, la spesa pubblica veleggiava attorno al 20% del Pil: meno della metà di quanto è attualmente in quasi tutti i Paesi europei.
Le correzioni sono più rare ma non se ne può fare a meno. Con “austerità” intendiamo quegli episodi nei quali si sana il divario fra livello di spesa pubblica e gettito fiscale. Lo si può fare in due modi: riducendo la spesa pubblica o aumentando le imposte. Dal punto di vista dei saldi, la cosa è indifferente: questa è la constatazione che orienta, ad esempio, le norme europee. Ma le conseguenze non sono le medesime.
«L’austerità basata su aumenti delle imposte genera le gravi recessioni temute dai suoi critici», mentre al contrario «l’austerità basata su riduzioni della spesa non produce gli stessi effetti».
Alesina, Favero e Giavazzi arrivano a questa conclusione dopo aver passato in rassegna duecento piani di austerità pluriennali in sedici Paesi Ocse. Questi dati li sanno anche raccontare, spiegandosi con chiarezza e smontando con garbo fraintendimenti e luoghi comuni. Al lettore viene rammentato che la parola “austerità” non ha ovunque il medesimo significato, che i programmi di consolidamento fiscale, siano essi fondati sulla riduzione delle spese oppure sull’aumento delle imposte o in parte sull’una cosa e in parte sull’altra, non avvengono in un “vuoto” politico. Le misure che li accompagnano hanno anzi un ruolo cruciale: le riforme dal lato dell’offerta possono fare la differenza.
È il caso di un esempio di “austerità di successo”, quello della Spagna negli anni Novanta. Gli spagnoli avevano cominciato ad aumentare le tasse e si sono poi spostati, invece, su provvedimenti volti a razionalizzare le spese (sin da prima dell’elezione di Aznar). Nel contempo, hanno introdotto una importante riforma del lavoro. In un periodo nel quale riducevano drasticamente il disavanzo, a parte un calo nel 1993, «il tasso di crescita del Pil pro capite è aumentato (...) passando dal 2% del 1994 a quasi il 4% del 1998».
L’austerità di successo è meno rara di quel che si crede. In un Paese molto diverso, per istituzioni e cultura politica, come il Canada, negli stessi anni «il programma di tagli alla spesa pubblica (...) ha avuto effetti espansivi sull’economia. Il tasso di crescita del Pil pro capite è rimasto positivo per l’intero periodo».
Qualcosa di non troppo diverso era avvenuto negli anni Ottanta in Irlanda: si era pensato di eliminare il deficit di bilancio attraverso inasprimenti fiscali e il premio fu una brutta recessione. Gli irlandesi, però, impararono presto la lezione e dal 1987 si concentrarono sulle riduzioni di spesa. Gli esiti, benefici per la crescita, colpirono Francesco Giavazzi e Marco Pagano, che ne fecero l’oggetto del paper che ha avviato la serie di studi rispetto ai quali questo libro si pone come un momento conclusivo e di sintesi.
Ma perché ridurre le spese pubbliche non dovrebbe deprimere l’economia di un Paese, o dovrebbe farlo di meno di quanto accada aumentando le imposte?
I tagli alla spesa «segnalano che le tasse future saranno inferiori, forse permanentemente». Essi implicano infatti una riduzione delle esigenze fiscali del governo, per il presente e per l’avvenire. Questo fa sì che di solito abbiano effetti più duraturi sull’andamento delle finanze pubbliche; invece, dopo un inasprimento fiscale il deficit torna a crescere più velocemente.
Ridurre il deficit pubblico può comportare, nel breve periodo, una fase di difficoltà per l’economia. Ma se lo si fa tagliando le spese si riducono i quattrini che sono impiegati dallo Stato, cioè dalla classe politica, sulla base dei propri fini. Se lo si fa aumentando le imposte si sottraggono alle persone quattrini che esse impiegherebbero, in linea di massima, nell’uso che ritengono più produttivo. Un euro è sempre un euro, ma la logica con cui viene utilizzato è differente. È probabile che ridurre lo spazio per le scelte dei politici faccia meno danni.
Il libro esce in felice sincronia per Princeton University Press e Rizzoli. All’edizione italiana, è premessa una formidabile ricostruzione della vicenda del debito pubblico italiano: un micro-manuale che dovrebbe stare sulla scrivania di tutti i ministri.