Il Sole 24 Ore, 24 marzo 2019
Quando Balzac recensiva Stendhal
Entrambi si erano riconosciuti al primo sguardo tra la folla insignificante dei salotti. Entrambi si sentivano soffocare nell’epoca satura di conformismo. Entrambi avevano occhi scintillanti d’intelligenza e di ironia. Ma per un’ironia della sorte entrambi avevano un aspetto assolutamente banale.
C’erano però delle differenze. Balzac, malgrado le incessanti difficoltà finanziarie, era arrivato al successo con i suoi romanzi, mentre considerava illeggibili quelli di Stendhal e non capiva perché si ostinasse a firmarli con quello strano nome e non col suo, Henry Beyle.
Balzac si chiedeva come mai «quell’osservatore di prim’ordine, quel diplomatico penetrante» fosse stato relegato nell’insignificante consolato di Civitavecchia, da cui tentava senza sosta di evadere verso Parigi.
Quando venne pubblicato il capitolo della Certosa di Parma con la geniale descrizione della battaglia di Waterloo solo i più intimi, come Prosper Mérimée, potevano sapere che prima di tutti l’avevano sentito le due figlie della contessa Montijo – tra cui Eugenia la futura imperatrice -che ascoltavano incantate i suoi racconti sedute sulle sue ginocchia. Quando la madre cercava di liberarlo, Stendhal sospirava stringendole a sé: «Ormai solo più le bambine sentono le grandi cose; la loro approvazione mi ricompensa delle critiche degli sciocchi e dei borghesi».
Non sapeva che da tempo Balzac aveva sognato di fare un romanzo, La battaglia, tutto imperniato sui meccanismi di un grande scontro militare, dominato da Napoleone.
Non era stato facile fare arrivare a Balzac una copia della Certosa di Parma, ma Stendhal, dopo poche, distratte o malevole recensioni, ci teneva particolarmente. Il portinaio dell’autore non era riuscito a trovare la casa di Balzac, ma anche se fosse stato più perspicace, non sarebbe stato possibile. Perché lo scrittore non solo aveva cambiato indirizzo, ma, assediato dai creditori, viveva in una specie di semiclandestinità. Nel frattempo Balzac, folgorato da un’anticipazione del capitolo su Waterloo della Certosa di Parma, gli confessò che la lettura di quelle righe gli aveva fatto «commettere un peccato di invidia. Sì, ho avuto un accesso di gelosia davanti a questa superba e realistica descrizione». Sicuramente non poteva rinunciare a leggere La Certosa di Parma. «Sono un lettore così infantile, così incantato e soddisfatto che non posso esprimermi dopo la lettura… la freddezza e il giudizio mi ritornano solo dopo qualche giorno». Ma, dopo avere divorato la Certosa, Balzac non aveva potuto fare a meno di esprimere subito il suo entusiasmo al collega. «È un libro grande e bello, glielo dico senza adulazione, senza invidia, perché non sarei in grado di farlo, e si può lodare francamente quello che non rientra nel nostro mestiere. Io faccio affreschi e lei ha fatto delle statue».
L’entusiasmo non gli impedì di fargli «non delle critiche, ma delle osservazioni». Secondo lui, Stendhal aveva fatto un «errore immenso» ambientando il romanzo a Parma. Era molto meglio lasciare tutto nel vago. Poi c’erano delle lungaggini. «Non lo biasimo, questo non riguarda le persone intelligenti che stanno dalla sua parte e le gradiscono. Parlo per il gregge che si allontanerebbe». Ma erano solo all’inizio e, Balzac doveva ammetterlo, «se Machiavelli avesse scritto un romanzo ai giorni nostri», avrebbe scritto La Certosa. Travolto dalla bellezza del libro, Balzac specificava: «So tutto quello che mi manca e lo sa anche lei. È quello che bisogna perdonarmi». Temendo che Stendhal non gli credesse, aggiungeva: «Nella mia vita non ho mandato molte lettere elogiative; così lei può credere a quello che ho il piacere di dirle». Gli consigliava anche di spostare alla fine alcune parti dell’inizio e di tratteggiare meglio qualche personaggio. «Ma non è nulla, qualche tocco».
Gratissimo, Stendhal aveva tentato d’incontrare l’inafferrabile collega prima di tornare a Civitavecchia. Parlando di sé alla terza persona gli scriveva: «Fabrizio [nome del protagonista della Certosa] è passato molte volte e si sente molto afflitto di lasciare Parigi senza vedere il signor de Balzac. Quell’uomo amabile è pregato di ricordarsi che ha un ammiratore e oso aggiungere un amico a Venezia».
Tutto sembrava finito lì e Stendhal si era immerso nelle correzioni suggerite dal collega quando gli era arrivato il primo numero di una rivista, La Revue Parisienne, scritta quasi interamente da Balzac. Lì lo scrittore sommergeva di lodi il «recente capolavoro» di Stendhal, che considerava «come una grande mente e uno dei migliori autori della nostra epoca». Sapendo che Stendhal ripeteva che sarebbe stato considerato solo nel 1880, aggiungeva che il futuro gli avrebbe dato lo spazio che meritava.
Due mesi dopo, spinto da una terza rilettura della Certosa di Parma, Balzac pubblicava sulla stessa rivista, scusandosi del ritardo, un formidabile elogio del romanzo, che possiamo ora rileggere grazie a Pino di Branco. Più di 70 pagine di elogi di quello che era, precisava, «uno dei maestri più ragguardevoli della letteratura di idee». Inoltre l’autore non era un uomo qualunque. «Monsieur Beyle non è per nulla cortigiano, nutre per i giornali il più profondo orrore. Per nobiltà di carattere o per il suo sensibile amor proprio, appena il suo libro è pubblicato, se ne fugge, parte, corre a duecentocinquanta leghe di distanza per non sentirne parlare neanche un po’. Non sollecita articoli, non assilla i recensori. Ha fatto così per ogni suo libro pubblicato»”. Per poi ribadire che La Certosa era «un libro in cui il sublime rifulge di capitolo in capitolo».
I rapporti della polizia vaticana sul console di Civitavecchia davano l’impressione di una vita molto, troppo tranquilla, interrotta da rare evasioni a Roma o a Firenze. In quella solitudine le parole di Balzac, già di per sé sbalorditive per un autore tanto sottovalutato, dovevano avere avuto una risonanza ancora maggiore. «Adesso, gli scrisse, oso confessarglielo, ho letto quest’articolo straordinario, che nessuno scrittore ha mai ricevuto da un altro, scoppiando a ridere ogni volta che arrivavo a una lode un po’ forte, e ne incontravo a ogni passo, pensando alla faccia che avrebbero fatto i miei amici leggendolo».
Nelle tre successive versioni della lettera si poteva leggere tutta l’emozione del solitario sopraffatto dalle lodi, il suo proposito di correggere La Certosa secondo le indicazioni del critico, e una confessione non facile da fare a chi, come Balzac, aveva costruito un’opera mirabilmente strutturata: «Fare uno schema mi raggela». Dopo avere fatto una ventina di pagine, spiegava, «ho bisogno di distrarmi, un po’ d’amore quando posso, o un po’ d’orgia. La mattina dopo ho scordato tutto e, leggendo le ultime tre o quattro pagine del capitolo della vigilia, mi viene il capitolo nuovo». Stendhal si scusava anche della sua grafia indecifrabile. «Quando scrivo a una persona intelligente, scrivo così male, le idee germogliano così rapidamente che decido di fare ricopiare la lettera». Scartata una seconda versione per il suo «spaventoso egotismo», nella terza affermava, commosso, che nel 1880 Balzac sarebbe stato più celebre dei potenti cui si era ispirato per La Certosa. «Quando sono vivi, possono tutto sui nostri corpi, ma appena sono morti il silenzio li sommerge».
Questa lettera, che sicuramente Balzac avrebbe apprezzato, non gli arrivò mai e ancora nel 1841 Stendhal informava il «caro grande romanziere» che il messaggio riconoscente dell’anno prima si trovava a casa di un cugino. Invece non si trovava nemmeno lì, o almeno nessuno la trovò più.