Il Sole 24 Ore, 24 marzo 2019
A tavola con Jeffrey Schnapp
«Tra i primi libri della storia a vivere dell’intima connessione e del dialogo fra parola e immagine, fra pensiero e forma estetica c’è la Divina Commedia, in particolar modo il Paradiso, i cui canti centrali sono stati composti da Dante pensando ai mosaici della basilica di Sant’Apollinare in Classe, ammirati durante l’esilio a Ravenna. Ogni manoscritto miniato è un oggetto multimediale. La cultura occidentale in generale e quella italiana in particolare hanno una naturale propensione a fare dialogare cultura letteraria, cultura visiva e tecnica. La rivoluzione dell’informatica sta intensificando questo dialogo sotto condizioni nuove. Da noi negli Stati Uniti, ma anche da voi in Europa. In Italia, molti settori della società dimostrano però una difficoltà a vivere pienamente questo spirito del nostro tempo. Non basta essere consumatori accaniti della tecnologia».
Jeffrey Schnapp, 64 anni, è il direttore del metaLAB di Harvard, uno dei principali centri di ricerca internazionali in cui si prova a integrare cultura umanistica e dimensione digitale e ad operare sul profilo più avanzato e innovativo del design: “Design del sapere”, lo definisce lui stesso. Jeffrey e io siamo a Milano alla Cucina del Toro, a cinquanta metri da Via Dante e dall’American Bookstore, in un giorno di marzo che sembra giugno inoltrato. Dice Schnapp: «Occorre vivere la tecnologia da dentro: nei suoi meccanismi, nei suoi linguaggi e nelle sue tendenze. Nel vostro Paese non è sempre così. Non è così fra gli intellettuali, molti dei quali rimangono asserragliati nella torre d’avorio della cultura puramente umanistica. Non è così per troppi imprenditori, che nel design e nella moda rischiano di non declinare in senso pienamente contemporaneo la nuova connessione fra tecnica, industria ed estetica».
Jeffrey è tante cose: «Sono sempre stato un geek e un creativo. Sono stato il primo studente in materie umanistiche di Stanford a scrivere la tesi di dottorato interamente a computer e a stamparla, anziché batterla a macchina. Ricordo Sergey Brin sulla scalinata della libreria di Stanford, lui stava frequentando il suo corso di dottorato, aveva appena fondato con Larry Page Google e stava distribuendo a tutti portachiavi con quel nome che nessuno aveva mai sentito».
Secondo la tradizione americana degli intellettuali che ibridano competenze differenti e uniscono attività diverse, è anche co-fondatore – con l’architetto Greg Lynn – della Piaggio Fast Forward, la società americana del gruppo di Pontedera che a Boston lavora su nuovi concetti di mobilità, impiegando una sessantina fra manager, designer e ingegneri: per tre anni ne è stato amministratore delegato, adesso è il Chief Visionary Officer. È un italianista che, dalla letteratura medievale, è arrivato a studiare le avanguardie del Novecento e il Ventennio fascista. «La società medievale incardinata sui mercanti e la società industriale animata dai grandi capitalisti hanno molti punti in comune: la rottura di uno schema di autorità e la creazione di un nuovo modello. Adesso, però, siamo oltre: la società dell’informazione è una cosa diversa dalla società industriale. Il peso dei servizi è ormai prevalente. Soprattutto negli Stati Uniti, ma anche nei Paesi europei a maggiore vocazione manifatturiera, come l’Italia».
Jeffrey, che prima scorre rapidamente il menù e poi ascolta con attenzione le parole del cameriere, ha una camicia rosa portata senza cravatta, una giacca blu scura e due orecchini sul lobo sinistro. A Milano ha un appartamento sui Navigli: «Con una amica architetto siamo riusciti a costruirlo su quattro livelli. È strapieno di libri e oggetti, ma è minuscolo. Se entra un libro, un libro deve uscire». Schnapp, prima di andare a Stanford per il dottorato in letterature comparate fatto sotto la supervisione di John Freccero (uno dei maggiori dantisti americani, amico di Harold Bloom e di René Girard), è stato dal 1975 al 1978 lecturer all’università di Nizza: «Ho frequentato molto il vostro Paese. Era il periodo del Dams di Bologna e della sua nuova visione umanistica. A Bologna ho conosciuto bene Umberto Eco e la scuola di semiotica e Renato Barilli, con cui condividevo la passione per le avanguardie».
Schnapp è un osservatore interessato e interessante da un lato della grande transizione in una modernità composta da reti e dati («sarà ormai un luogo comune, ma i dati sono davvero il petrolio del nostro tempo», dice mentre iniziamo a mangiare entrambi un tortino di topinambur su un letto di crema di formaggio) e, dall’altro lato, della collocazione del nostro Paese – della nostra struttura sociale e culturale, tecnologica e industriale – all’interno del mutamento internazionale in corso fin dagli anni 90. L’Italia è un diaframma che gli permette di indagare i rapporti fra letteratura e arti visive, fra arti visive e nuove tecnologie, fra nuove tecnologie e movimenti storici: «Il Futurismo è stato a lungo sottovalutato per la sua vicinanza al Fascismo. In realtà, ha rappresentato un motore innovativo straordinario, perché ha elaborato nuovi modelli utili per costruire nuove identità e per interagire con il mondo. Attraverso le arti visive e la parola scritta ha plasmato in maniera del tutto originale la moda e lo sport, la comunicazione e la cucina».
La storia italiana è un terreno privilegiato per cogliere le intersezioni e i punti di rottura, le continuità e lacerazioni fra il passato e il presente. Un ordito descritto mentre lui mangia una gallinella di mare e io, invece, prendo una svizzera. «Oggi in Italia si assiste spesso a un mix di xenofilia, cioè l’accettazione acritica di ciò che arriva da fuori, e di provincialismo. Rimane l’ombra dei grandi maestri. Fanno fatica a emergere talenti in grado di cambiare l’ordine delle cose e l’ordine della percezione. Questo accade perché il Paese non li accudisce e non li valorizza, non li porta in avanti e non li sostiene. È evidente il peso della gerontocrazia. Questo vale nelle università e nel design industriale, ma temo che valga in tutta la società e in tutta l’economia italiane. Dove sono i nuovi Ettore Sottsass e i nuovi Giò Ponti? Esistono. Ma tanti vivono e operano a Copenaghen e a Stoccolma, a Tokyo e a San Francisco. È una diaspora. Ai vostri talenti rimasti in Italia spesso non manca solo una radicale immersione nella contemporaneità tecnologica. Manca soprattutto la struttura sociale della grande impresa, che ha costruito l’ossatura del vostro Novecento industriale ed economico, sociale e culturale. Penso alla Olivetti, ma anche alla Pirelli e alle imprese pubbliche del mondo Iri che sapevano creare comunità di intellettuali che integravano la cultura e l’industria, la funzionalità della manifattura e l’estro della creatività».
Se l’Italia è un diaframma per interpretare le grandi tendenze della storia, la membrana di questo diaframma è appunto formata prima di tutto dal design industriale. Il suo corso alla facoltà di architettura di Harvard è basato su quattordici oggetti del design italiano: dalla Cobra Chair di Carlo Bugatti alla bottiglia del Campari Soda di Fortunato Depero, dalla Valentine di Ettore Sottsass all’ultimo televisore Brion Vega. «È buonissima questa gallinella di mare», dice mentre mi spiega che, rispetto a vent’anni fa, la conoscenza dello specifico italiano, nelle grandi università americane, si è rarefatta. Dopo avere commentato il pesce della Cucina del Toro, Schnapp riprende: «Alla fine del corso, i ragazzi devono progettare un falso storico, inventando un oggetto che risponda ai canoni di bellezza e di funzionalità, secondo il paradigma del design industriale italiano. Ha un senso farlo, perché credo che esista una capacità evocativa di carattere universale che ha reso quella esperienza storica profonda e interessante».
Il problema di oggi, in Italia, è una sorta di languida nostalgia, che si instaura su una precisa e originale articolazione estetica e letteraria, visiva e della bellezza calata nelle forme artigianali e industriali. C’è una coazione a ripetere meccanismi storici. Ci sono la gerontocrazia sociale e l’ossificazione del potere implicito ed esplicito. «L’elemento da cui potete provare a ripartire è la capacità di generare modelli sociali da innovazioni culturali. È una delle vostre cifre di lungo periodo. Magari ha dato vita ad esperienze in apparenza minoritarie. Ma, nei fatti, è il sale della terra della vostra storia. In merito alla capacità di sviluppare nuove forme di realtà partendo da nuove forme di pensiero, ricordo sempre l’architettura e il design del Bauhaus in Germania, l’avanguardia americana nella danza, nella musica e nell’architettura concepita al Black Mountain College in North Carolina e la controcultura e la cybercultura che in California hanno fatto da humus alla Silicon Valley. A questi tre riferimenti, io penso che vada aggiunto Adriano Olivetti, con la sua miscela di efficienza industriale e utopia sociale, frontiera tecnologica e senso della bellezza. Adriano Olivetti è stato una anomalia. Ma non è stato un errore della storia. Adriano Olivetti è stata la vostra storia, in grado di integrare cultura umanistica e visione tecnologica, libri e disegno industriale, pensiero sociale e mondo della fabbrica. Esiste davvero uno specifico italiano, che è insieme nella storia e al di fuori della storia». Lo dice, mentre beviamo il caffè, con grande amore – non cieco, però – verso il nostro Paese, per la sua certa identità storica e la sua – auspicabile senz’altro, possibile chissà – vocazione futura.