Il Messaggero, 24 marzo 2019
Intervista al fotografo Paolo Ventura
Le opere di Paolo Ventura sono vere fotografie. Ma non avvicinatevi troppo, rovinereste la magia. «Una volta guardavano tutti da un centimetro di distanza, studiando la tecnica. Ma bisogna allontanarsi e guardare la storia». L’artista milanese, classe 1968, mescola varie tecniche artistiche per poi immortalare la scena con la fotocamera. Risultato: opere oniriche perfettamente riconoscibili ma irrealizzabili. Magritte (o De Chirico?) con la macchina fotografica. Da una decina di anni sono esposte nelle gallerie d’arte di tutto il mondo e vengono vendute per migliaia di euro.
La fotografia, però, nasce per testimoniare la realtà. Lei ha tradito questa sacra missione?
«Non mi interessa la visione classica della fotografia. Lavoro sulla ricostruzione di idee, sogni, fantasie. Rappresento il mio inconscio, l’inconscio della società, come uno psicanalista. La fotografia è il mezzo meccanico che li rende reali».
Dovessimo spiegare alla nonna, come diceva Einstein, quello che fa?
«Semplificando al massimo direi che le mie sono immagini che sembrano dei dipinti. Non c’è una precisa ripartizione degli strumenti che uso, pittura, trucco, messa in scena, modellini. Ma se le mie opere fossero una torta, l’ingrediente principale, lo zucchero, rimarrebbe comunque la fotografia. La forza suprema».
Com’è arrivato a questa visione, qual è il suo mito fondativo?
«Ho lavorato dieci anni come fotografo di moda. Poi ho deciso di mollare il lavoro e andare a New York. Per un anno e mezzo sono stato chiuso in uno sgabuzzino. Con le foto volevo creare dei mondi immaginari. Era il momento a cavallo tra analogico e digitale: la fotografia aveva ancora un potere di credibilità e suggestione».
Il suo primo lavoro americano, Souvenir di guerra, è però molto legato all’Italia bellica.
«Il progetto derivava dai racconti di guerra che mi faceva la mia famiglia, in particolare mia nonna. Ma le opere che ho realizzato non sono resoconti, sono la mia personale elaborazione. Ho lavorato sulle sensazioni, sulla mediazione. Ho messo dentro me stesso».
Così è uscito dallo sgabuzzino. Cosa è successo dopo?
«La fortuna dell’incosciente. Dopo un anno e mezzo di clausura non volevo più tornare indietro. Ho portato le immagini al New Yorker. Le hanno prese subito».
Nessuno ha storto il naso? La sua era una piccola rivoluzione o anzi, Post-fotografia, come scrive Joan Fontcuberta, artista che si lancia in simili sfide.
«C’erano i critici. Un editore ha rifiutato di pubblicare un mio libro dicendo: Questa col cavolo che è fotografia. Era aggrappato a una visione vecchia, iper-tecnica, per un pubblico di maniaci che crede che il segreto stia nella macchina fotografica, nelle sue budella, nei suoi rullini. Ma questo allontana dal racconto, dal messaggio, dalla libertà di mostrare anche ciò che non è, ciò che non esiste».
Agli americani, però, piaceva proprio quell’Italia lì, una via di mezzo tra Fellini e Neorealismo. Ha dedicato un lavoro alla Via Emilia, uno a Roma. In altri si vedono le insegne del nostro passato. Cosa sono il tempo e lo spazio nelle sue opere?
«Amo i non-luoghi. Ci metto dei riferimenti, ma è solo per avere una targa, un senso di sicurezza. Sono luoghi della memoria, città calviniane, che cambio e trasformo. Come Roma: quando l’ho rappresentata ho tolto ciò che non mi piace della Capitale, il traffico e i turisti, e tenuto il resto, i colori e il cielo. La stessa cosa vale per il tempo: il mio è un non-tempo. Può essere il passato oppure il futuro, cambia sempre e sono interconnessi».
Sandy Skoglund, artista che le assomiglia, ha impiegato 10 anni per la sua ultima opera. Lei quanto impiega?
«A volte mi affeziono per anni, mi tengono compagnia. Altre volte l’idea mi viene il lunedì e il giovedì è pronta. Una volta finite, possono andare nel mondo come un bimbo svezzato».
Ci sono altre due caratteristiche ricorrenti nelle sue opere: l’auto-rappresentazione e la scomparsa. Perché?
«Ho un fratello gemello, omozigota, perfettamente identico a me. Avere un gemello significa non essere mai se stessi, avere la propria identità annullata al 90 per cento. Vieni confuso perché sei uno dei due, ed è come essere uno di dieci, di cento. Allora sei ciò che non sei. Sei un soldato, sei un pagliaccio con un naso rosso. Nelle opere mi autoritraggo con dei travestimenti, così mi definisco. Come fossi un bambino, ripetendo l’azione all’infinito. E poi, sì, sparisco, perché anche quello è identità: gli sguardi di chi cerca le differenze in noi mi mettono in difficoltà».
C’è anche suo fratello nelle sue immagini?
«Chi lo sa».
C’è invece suo figlio, come nella foto dove lei è miniaturizzato e lui le posa accanto. Cosa dicono i bambini davanti alle sue opere?
«Hanno una libertà visiva che poi purtroppo perdono. Un bambino non mi chiede cos’è, lo vede e basta. Gli adulti vogliono capire tutto. Razionalizzare».
Se quei bambini crescendo volessero realizzare opere come le sue, quale sarebbe il primo consiglio che gli darebbe?
«Fate fotografie. Fatene tante. Come un musicista che in oratorio suona 10 ore al giorno, voi scattate centinaia, migliaia di foto. L’assenza di lavoro è un errore. Come in altre discipline, agli inizi la quantità serve a formare la qualità. Poi con il tempo arriva la maturità, la capacità di sintesi. Ma prima, scattate. E risolvete problemi fin da subito, così che dopo sarà tutto più facile».
Ma come si fa a non perdere la meraviglia?
«È vero, è facile perdere quel contatto. Io l’ho coltivato con la solitudine. La solitudine era l’affermazione di me stesso, della mia visione. Bisogna mettersi a nudo, rimanere vulnerabili. L’omologazione, i modelli, soprattutto in fotografia, sono più confortanti. Ma non la realtà non basta, bisogna lavorare anche sui desideri».