La Stampa, 24 marzo 2019
Biografia di Wes Anderson
Credo che una parte consistente dei miei studenti della New York University seguano i corsi perché mi sono trovato a recitare, quasi per scherzo, in un suo film, e in seguito in una finta rubrica di critica cinematografica a cui ha dato il nome Mondo Monda: non c’è volta che uno studente non interrompa le lezioni chiedendomi: «com’è stato lavorare con Wes Anderson?».
Racconto questo per spiegare come Wes, sin dal film d’esordio Bottle Rocket, rappresenti una figura mitica per gli appassionati di cinema di ogni parte del mondo. Il motivo del suo fascino, che assume dimensioni di culto tra i più giovani, supera l’originalità, lo stile ricercato e quel tono ironico e malinconico che si respira nei suoi film: i giovani lo amano anche perché hanno la sensazione che rappresenti un ideale cool e un modello di irraggiungibile felicità, sebbene le sue opere siano incentrate su elementi di privazione e dolore. È un’attrazione simile a quella che molti provano per Zelda e Francis Scott Fitzgerald.
È un uomo timido, Wes, pronto ad arrossire con un sorriso, perché conosce il valore catartico dell’autoironia. Ed è naturalmente elegante: chi ama e conosce gli Stati Uniti riconosce immediatamente in lui i tratti del gentleman del Sud, chi invece ne ignora la storia e ne disprezza l’essenza rimane spiazzato da una raffinatezza innata, che smentisce immediatamente ogni tipo di pregiudizio. Come Zelda e Francis appartiene a quel genere di americani innamorati dell’Europa, mitizzata e ricreata nei suoi film, ma vissuta anche nella realtà: nativo di Houston, nel Texas, vive tra Parigi e la campagna londinese, riservando poche settimane l’anno a New York, dove ha un magnifico loft nel quale abitava Larry Rivers.
Il rapporto con l’arte del passato è una costante: il nome Freya, dato alla figlia avuta dalla scrittrice Juman Malouf, è un omaggio alle origini scandinave della sua famiglia, ma è anche il modo in cui si chiamava Margaret Sullavan in Bufera mortale di Frank Borzage, autore da lui venerato.
La paura dell’abbandono
Il divorzio dei genitori ha rappresentato un trauma che non ha mai del tutto assorbito, e la paura dell’abbandono è un tema che compare in tutti i suoi film, insieme a quello della genialità eccentrica condannata alla decadenza. Come molti autentici autori Wes raffigura sé stesso in quasi tutti i suoi personaggi, anche quando sono antitetici: la sua caratteristica principale, e insieme la sua forza, è quella di essere rimasto un bambino, la cui genialità non è sufficiente ad alleviare il bisogno costante di calore. Fa una certa impressione pensare che a maggio compirà 50 anni, e in ogni occasione appunta a penna su un quadernetto tutto ciò che stimola il suo talento: alcune delle idee più folgoranti sono nate da quelle note, scritte con calligrafia infantile. Così come i nomi evocativi dei personaggi, rubati spesso a persone reali: Royal Tenenbaum, Oseary Drakoulias, Klaus Daimler, Zero Mustafa, Madame Celine Villeneuve Desgoffe und Taxis.
Può sembrare un gioco, ma si tratta della scoperta divertita del fantastico nel quotidiano. A cominciare dagli attori ricorrenti nelle sue pellicole, capeggiati da Bill Murray, ama circondarsi di un ristretto gruppo di amici, con i quali si concede il lusso di vivere senza pressioni e con un divertimento sincero. Sono persone che provengono dai campi più disparati, che si trovano catapultate nei film insieme a star di prima grandezza: sul set di The Life Aquatic with Steve Zissou mi sono trovato a dialogare con il gallerista Tony Shafrazi, scritturato per un ruolo senza battute, e mi resi conto che anche quella scelta non aveva nulla di goliardico, ma rivelava un bisogno di protezione.
Si potrebbe dire lo stesso per i luoghi, dove torna per trasformarli (il college di Rushmore, girato nel suo liceo) o ricrea partendo dalle emozioni di letture giovanili come Stefan Zweig in Grand Budapest Hotel. Anche la ricercatezza dello stile non è mai fine a sé stessa, e ne ebbi prova quando, sul set di Life Aquatic, chiese alla costumista Milena Canonero di vestire gli attori con indumenti di estrema raffinatezza, ma di una misura più piccola del necessario. Voleva che esprimessimo tutti, nonostante l’eleganza, un senso di leggero disagio, che serviva a proiettare qualcosa di dolorosamente esistenziale.
Grande perfezionista
È di un perfezionismo esasperante: un giorno mi invitò a seguire la correzione del colore di Darjeeling Limited, e lo vidi rimanere per un’intera mattina a cercare la giusta gradazione di rosso di un falò. Perfino quando girammo Mondo Monda curò minuziosamente ogni aspetto della lavorazione, a cominciare dal fatto che dovessimo tutti indossare maglioni a collo alto: «come gli esistenzialisti francesi», spiegò. In quella delirante parodia il sottoscritto, nei panni di un critico pomposo, doveva fare domande molto seriose sul film, alle quali Wes e Noah Baumbach, sceneggiatore della pellicola, rispondevano in maniera del tutto sciocca. O viceversa: domande stupide e risposte molto pensose. Il tutto in uno studio dai colori improbabili, un arredamento precario e continue interruzioni delle trasmissioni. Si trattava di uno scherzo, ma alcuni critici credettero che fosse una trasmissione autentica, e scrissero recensioni sconcertate.
Anche l’amore per le miniature e le riprese in cui svela il totale di un intero ambiente nascono dal tentativo di avere una visione armonica su ogni insieme, ed è del tutto errato identificarlo come poeta del piccolo e della voglia di tenerezza: ha slanci assolutamente visionari, e ai tempi del liceo allestì una versione teatrale di Guerre stellari, idea che ora definisce «disastrosa». È spiazzante come parla del proprio lavoro: forse soltanto i Coen, tra i cineasti americani, hanno un atteggiamento ugualmente distaccato e minimizzante. Wes ha un atteggiamento sanamente opposto a quello di molti autori, specie europei, eppure è tra i più ammirati e imitati: è come se trovasse le cose senza cercarle, e senza mai prendersi troppo sul serio. Ma nella vita dimostra anche il contrario, reagendo, come nella finta rubrica, in maniera seria a domande facete.
Un giorno mia figlia Marilù gli chiese se poteva accompagnarlo agli Oscar per conoscere una star per la quale aveva una cotta infantile: credevo che si sarebbe messo a ridere, invece le rispose con una lettera, mettendola in guardia dalle star, «vanitose», e dal «vuoto» mondo di Hollywood. È di una magrezza impressionante e ha un colorito pallido: anche di questo scherza, come del suo abbigliamento, ricercato ma con poche variabili: completi di velluto azzurro o rosso volpe, e, quando è a casa, una vestaglia rosa fatta su misura dal suo sarto di fiducia a Roma.
Non sorprende che sia spiritosissimo, ma colpisce come riesca a essere sferzante nei confronti di sé stesso. Il suo mondo coloratissimo, alla ricerca costante dell’ordine, è messo ogni momento in crisi dalla fallacia di tutto ciò che è umano, ma è il primo a riconoscere che il suo anelito di armonia contrasta con una fragilità che è in primo luogo propria. Tuttavia ogni cosa è vissuta sempre con una leggerezza che ha conquistato il mondo e lo ha fatto volare alto. Una volta gli dissi che Borges sostiene che gli angeli riescano a volare perché non si prendono troppo sul serio: Wes ha sorriso, poi si è appuntato la frase sul quadernetto.