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 2019  marzo 23 Sabato calendario

Intervista a Ernesto Ferrero

Protagonista dell’editoria, scrittore di romanzi storici, studioso dei gerghi, biografo a suo modo di Napoleone e di Salgari, traduttore di Céline. Autore di un viaggio memorabile dentro le grandezze e i riti della «sua» casa editrice e soprattutto nei capricci e nel genio del padrone, il divo Giulio (Einaudi). Ernesto Ferrero ha lasciato tre anni fa la direzione del Salone del Libro e oggi è più nonno (di due nipotini) che organizzatore di cultura; più che lettore professionale è scrittore (ha appena consegnato all’Einaudi un libro, Francesco e il sultano , che uscirà in settembre). 
Com’è andata l’esperienza al Salone?
«Portare una manifestazione semi-affondata sino al podio delle grandi fiere europee è stata una esperienza molto gratificante e una entusiasmante impresa collettiva, che ha coinvolto la città e l’intero mondo del libro. Peccato che gli azionisti di maggioranza, le istituzioni pubbliche, non siano state all’altezza. Il vero protagonista è stato un pubblico appassionato e competente, molto migliore di quello che ritengono gli addetti ai lavori. Per questo va servito meglio. Il Salone dice che alla lunga la qualità vince sempre. Su quella bisogna puntare». 
Perché questa richiesta di vera cultura non si traduce in partecipazione politica?
«La composta passione civile del popolo dei lettori, delusa dai partiti tradizionali, non sa dove incanalarsi. È un’offerta di disponibilità che non trova casa. La domanda echeggiata più volte nelle sale del Lingotto è: ma noi cosa possiamo fare? Sono maturi i tempi per un nuovo modo di ripensare insieme la polis su solide basi culturali».
È il centenario di Primo Levi. Cesare Segre ha scritto che è stata la persona più ammirevole che abbia mai conosciuto. Vale anche per lei?
«Certo. Appena arrivato nell’ufficio stampa Einaudi, i primi di marzo 1963 mi sono ritrovato sul tavolo le bozze della Tregua per farne il risvolto. Mi è bastato arrivare a pagina 3 per capire che era un libro straordinario. Eppure ci abbiamo messo anni per cogliere la grandezza dello scrittore, offuscata dall’esperienza di deportazione che aveva raccontato. È stato relegato nella categoria del testimone, dimenticando che è partito per Auschwitz con l’habitus mentale del tecnico di laboratorio e con l’occhio dello scrittore».
Forse lui stesso aveva pudore a dichiararsi scrittore, visto che le sue «Storie naturali» uscirono nel 1966 con lo pseudonimo di Damiano Malabaila...
«Lui stesso ha ecceduto in modestia e umiltà, ma siamo stati tutti colpevoli, anche in Einaudi: non abbiamo colto la valenza di quelle vere e proprie favole morali, che erano il prolungamento con altri mezzi del discorso di Se questo è un uomo. Oggi possiamo dirlo: erano anni di una ideologizzazione sfrenata, tutto passava da quel filtro e c’è voluto parecchio per liberarsene. Pensare che a Primo Levi abbiamo persino bocciato le poesie! Le consideravamo un qualcosa di marginale pensando che la sua grandezza fosse altrove. Poi per fortuna Primo ha incassato la stima di Giovanni Raboni e altri».
Anche Calvino all’inizio non venne preso molto sul serio in casa editrice.
«Non c’erano primattori in quel falansterio di trappisti. Stavano tutti a zappare nell’orto. Non esisteva il divismo attuale e nemmeno la tuttologia e il presenzialismo. Erano esistenze ritirate, riservate. E non sto parlando solo dell’Einaudi, anche se all’Einaudi questo atteggiamento era più accentuato: per lo Strega da Torino non è mai partita una telefonata. Gli einaudiani non chiedevano e non ringraziavano. È cambiata anche l’informazione. Si è passati dall’autorevolezza delle grandi firme agli alleggerimenti e alle polemiche inventate, agli scandali, alla rissa spicciola. Più personaggi, meno libri».
Impossibile tornare indietro?
«Difficile resistere alle sirene dei gadget ipertecnologici, che drenano una quantità di tempo spaventosa. Viviamo un’accelerazione letale, un presente frenetico, appiattiti su un linguaggio essenziale che è tutt’altro che essenziale, un lessico impoverito di tutto tranne che dei luoghi comuni. Il sapere è diventato una colpa e la competenza sinonimo di poteri occulti». 
Tutto ciò come si sposa con l’idea della disponibilità alla cultura di cui si parlava?
«Ci sono notevoli isole di resistenza civile da far crescere e mettere in rete. Negli ultimi anni avevo persino pensato di lanciare un movimento di lettori. Poi si sa come finiscono i movimenti quando diventano istituzioni. Quello che manca è un progetto di medio-lungo periodo, una visione e una visionarietà. Oggi sarebbe impensabile un Adriano Olivetti che negli anni Cinquanta progettò di riscattare Matera». 
Non vede una capacità visionaria neanche nella cultura?
«Non vedo fari, luci, grandi scrittori alla Volponi. Ci sono editori che lavorano bene, ma finiscono per assomigliarsi un po’ tutti. L’epoca in cui si era convinti, anche ingenuamente, di cambiare il mondo con i buoni libri si è esaurita da tempo». 
Lo sa che con certi discorsi si espone all’accusa più infamante, cioè la nostalgia? 
«Spero di essere smentito e ricacciato con ignominia nella categoria dei vecchi brontoloni, ma io faccio fatica a capire il presente. Infatti come scrittore prediligo il romanzo storico, mi muovo nella contemporaneità come Fabrizio del Dongo sui campi di battaglia. Ci capisco poco, ma quanti sono quelli che la capiscono nel profondo e agiscono di conseguenza? Anche a livello mondiale, la mediocrità dei leader è deprimente».
Un critico della contemporaneità come Alessandro Baricco è tutt’altro che pessimista sul «Game» in cui viviamo.
«A me pare che allo sviluppo delle potenzialità offerte dalle tecnologie non corrispondano bravi manovratori: esistono le macchine ma non i piloti preparati a sfruttarne la velocità. Quanti Baricchi ci sono in Italia? C’è un problema di rifondazione».
Cioè? 
«Dove sono gli artefici di un vasto programma di formazione dei cittadini, che dovrebbe essere la priorità di un governo, visto che un Paese vale per quel che sa? Chi educherà gli educatori? I docenti dicono che gli studenti più motivati sono i cinesi e gli indiani, quelli cioè che cercano una rivincita su secoli di miseria e che oggi hanno il coltello tra i denti». 
Lei fa parte del comitato dello Strega. Come giudica il livello della narrativa?
«Continuo a credere nella letteratura, che non è una scienza esatta ma può arrivare persino più in là, se la si intende come esplorazione di terre incognite. A proposito dei romanzi che escono, mi chiedo quanti ne tratterrei a casa. La risposta è: molto pochi. Sono libri che si somigliano tutti, scritti in un italiano basico: sai già cosa ti raccontano e come vanno a finire».
Che cosa le piacerebbe vedere? 
«Più coraggio, voglia di tentare l’impossibile, come chiedeva Calvino. E più scrittura. La qualità della scrittura non interessa più, ma è lì che si gioca tutto». 
Responsabilità dell’editoria?
«Dai padri-padroni affascinati dalle loro creature, tante case editrici sono passate a proprietà finanziarie che devono rispondere agli azionisti in tempi brevi. Ma in editoria semini oggi per raccogliere non fra tre mesi ma fra qualche anno. Si semina a spaglio, un po’ a caso, sperando nel bestseller che salvi la stagione. Si supplisce alla qualità con la quantità. Non si fa più ricerca e laboratorio. E l’iperproduzione disorienta il lettore». 
Quali sono i suoi punti di riferimento come scrittore? 
«Premesso che tutti i giorni continuo a dialogare con quelli che considero i miei maestri, Calvino e Primo Levi, mi mancano molto Peppo Pontiggia e Cesare Garboli, e ovviamente Eco: in loro si saldavano perfettamente passioni letterarie e (sofferte) passioni civili, come oggi in Claudio Magris. E poi c’è la saggistica».
Quali autori?
«Ho cercato di supplire all’assenza dei miei maestri costruendomi una costellazione multipla la cui stella polare è George Steiner e in cui rientrano anche Jean Starobinski e James Hillman, e uno scienziato-filosofo come quel bell’ingegno di Douglas Hofstadter o del nostro Carlo Rovelli. E mi interessano anche gli storici che incrociano varie discipline, come Carlo Ginzburg, Chiara Frugoni o Simon Schama. Da non credente, apprezzo molto Gianfranco Ravasi ed Enzo Bianchi. Cerco nutrimento presso i grandi ibridatori, che si sforzano di connettere cultura umanistica e cultura scientifica, uno snodo decisivo».
E gli scrittori italiani di oggi?
«Ho grande stima di Domenico Starnone (mi sembra il più bravo), e tra gli emergenti apprezzo Donatella Di Pietrantonio, che sa scrivere libri “necessari”, categoria sempre meno affollata. Peccato che il vero figlio di Calvino, Daniele Del Giudice, sia stato fermato da una malattia crudele. Tra gli stranieri, gli spagnoli Javier Marías e Javier Cercas, con il quale ho un’interlocuzione fraterna; poi Ian McEwan, Philip Roth, Cormac McCarthy (solo gli sprovveduti del Nobel possono non accorgersi di lui), e Marylinne Robinson; e Amos Oz, un altro che sentivi naturalmente fraterno».
La stima per Starnone è anche la stima per Elena Ferrante?
«Le prove sembrano schiaccianti. Gli attribuirei i primi due romanzi ferrantiani, bellissimi. La tetralogia mi sembra di una mano diversa».