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 2019  marzo 23 Sabato calendario

Le chitarre del rock al Metropolitan

La Madonna con bambino di Duccio da Boninsegna. Le ninfee di Monet. «Aristotele e il busto d’Omero» di Rembrandt. Il ritratto di Madame X di John Singer Sargent. L’allegoria della Fede di Vermeer. La chitarra elettrica di Keith Richards. Il rock sarà la musica classica del futuro: ormai è chiaro, inevitabile, confermato da mille indizi, elementi, prove. Bob Dylan ha vinto il Nobel per la Letteratura, il rapper Kendrick Lamar – del ghetto di Compton, California – il premio Pulitzer per la musica finora esclusiva di compositori contemporanei e, al massimo, jazzisti colti. I turisti, a Londra, fotografano la targa blu sulla facciata della casa di Jimi Hendrix, allo stesso indirizzo di Georg Handel, giganti musicali di epoche diverse con la stessa dignità conferita dalle mappe dell’English Heritage. E ora il rock, con i suoi eroi, i suoi simboli, i suoi manufatti, entra dalla porta principale dell’arte colta, il museo Metropolitan di New York che coraggiosamente il mese prossimo dedicherà la mostra «Play It Loud», «Suonala a tutto volume», alle chitarre, ai bassi, alle batterie e ai costumi di scena dei giganti del rock. 
L’avevamo già visto nel film «Star Trek Beyond», ambientato nel 23esimo secolo, quando gli alieni cattivi vengono sconfitti dalla trasmissione a tutto volume di una canzone del 1994 – «Sabotage», dei Beastie Boys – e il dottor McCoy dice stupito a Mr Spock «Musica classica!». 
Ora il Metropolitan (8 aprile-1 ottobre) diventerà una sala da concerto: il pianoforte che Jerry Lee Lewis, il killer del rock’n’roll, suonava scatenato con le mani e anche i piedi, terrorizzando l’America di Happy Days con la «musica del diavolo». La Gibson ES-350T di Chuck Berry, padre nobile che ha forgiato dal rhythm and blues dei neri il rock, dettandone le regole che vengono rispettate tuttora. La «twelve-string» di John Lennon, la Rickenbacker 325. La batteria di Keith Moon degli Who, che a guardarla da vicino pare ancora intrisa del suo sudore tossico, con i graffi e le gibollature del suo stile unico e mai più rivisto dal giorno della sua morte, 41 anni fa. La Stratocaster bianca di Jimi Hendrix, quella di Woodstock. Ci sono anche dei frammenti, come in ogni museo archeologico che si rispetti: i pezzi di una delle chitarre di Pete Townshend degli Who, distrutta durante uno dei suoi celebri mulinelli, e ricomposta religiosamente dai curatori del Met. 
E c’è, ovviamente, visto che si parla soprattutto di chitarre elettriche, Keith Richards. Sui manifesti della mostra che presto tappezzeranno Manhattan, sui taxi e i bus e sui cartelloni di Times Square, sulla copertina del grande catalogo ragionato c’è la Gibson, dipinta a mano, di Richards. La Les Paul customizzata, numero di serie 7-7277 del 1957 e dipinta nel 1968. L’ha prestata Richards, divertito dall’idea di finire, in vita, già al museo. Ma non è un pezzo da collezione, o da museo. Quando tornerà a casa Richards, impacchettata a dovere, finita l’esposizione del Met, Keith la riprenderà in mano. In vista del prossimo concerto, del prossimo tour, di un’altra jam-session. Da suonare «a tutto volume», come dicono ormai anche i direttori dei musei.