Corriere della Sera, 23 marzo 2019
Il libro contro le armi del figlio di Di Bartolomei
C’è una pistola che ha sparato un colpo soltanto, venticinque anni fa, ma continua a tenere in ostaggio un uomo. Il quale non sa dire se riuscirà mai a liberarsi, ma sa che non vuole restare prigioniero di altre paure e di altre armi. Quell’uomo è Luca Di Bartolomei, figlio di Agostino, ex calciatore ed ex capitano della Roma campione d’Italia e vicecampione d’Europa, che la mattina del 30 maggio 1994 si suicidò con la sua Smith & Wesson calibro 38. Luca, che all’epoca era un bambino di 11 anni, fu l’ultimo a vederlo vivo; oggi è un affermato analista aziendale, oltre che un appassionato osservatore di fenomeni sociali, e nella premessa al libro-pamphlet Dritto al cuore (Baldini+Castoldi, pagg. 108, euro 16) spiega: «Nelle occasioni in cui si parla, come puntualmente avviene da molti anni, di ampliare le maglie della detenzione e del porto d’armi con la scusa della legittima difesa, io ripenso sempre a quel bagliore, la canna lucida che dopo il suicidio di mio padre ho rivisto diverse volte. Di quell’arma non abbiamo mai avuto né la forza né il coraggio di disfarcene».
Divenuto a sua volta padre, Luca ha iniziato a pensare ai suoi bambini, alle incertezze dentro le quali lui stesso sta crescendo insieme a loro (dal lavoro ormai precario quasi per definizione, al traballante destino del Pianeta), e non vuole aggiungerne altre. Peraltro basate su dati falsi. Che l’Italia sia un Paese insicuro è una bugia, lo dicono le statistiche, a cominciare dalla percentuale di omicidi tra le più basse d’Europa. E l’aumento degli immigrati, per citare un altro capitolo dei timori collettivi, non ha portato con sé alcun incremento di reati, a dispetto di «un luogo comune molto diffuso e alimentato da una certa politica che parte da destra ma ha fatto proseliti anche a sinistra».
Eppure si registra, o si diffonde a grande velocità come fosse un dato acquisito e incontrovertibile, una generale percezione d’insicurezza che spinge le persone ad armarsi. Se però un uomo con la pistola è vittima di una percezione sbagliata, i danni che ne derivano possono essere incalcolabili. E i pericoli sono destinati ad aumentare se di fronte all’incremento di eventi gravi e folli, la reazione dei governanti non è di invertire la rotta invitando a una maggiore cautela nell’uso delle armi, bensì di aumentarne la diffusione; magari ipotizzando, come Trump, di addestrare gli insegnanti a contrastare le stragi nei campus.
Di Bartolomei cita l’ultimo rapporto del Censis sulle condizioni della società italiana per sostenere che «si sta verificando una sorta di “sovranismo psichico” che spinge gli italiani oltre il rancore e in direzione di una cattiveria diffusa, che sorge principalmente dalla paura di perdere e di perdersi». Viene anche da lì la spinta ad armarsi, perché non ci si fida della difesa affidata allo Stato e alle sue strutture: l’uomo con la pistola si sente più sicuro. Ma questo non è un fattore che produce tranquillità, è un pericolo: «Più armi in circolazione significano solo più sangue», senza che ciò abbassi il tasso di criminalità.
Sempre le statistiche dicono che è del tutto «irrazionale» la mancanza di fiducia nei confronti delle forze dell’ordine come garanti della sicurezza collettiva; una deriva che rischia di mettere in discussione uno dei capisaldi della convivenza civile, quello secondo cui solo dei «soggetti terzi» rispetto alle parti in causa possono usare la forza e infliggere condanne. «Se abdicheremo a questi principi, se ognuno di noi, da armato, preferirà la percezione personale all’oggettività del reale e considererà superiore a quella di un tribunale la propria idea di giustizia, questo nel prossimo futuro rischierà di non essere un Paese per vecchi», avverte il figlio dell’ex campione che un giorno, a 39 anni d’età, decise di sparare a sé stesso con la calibro 38 che teneva in casa per difendersi dagli altri. Con un proiettile puntato dritto al cuore, come il libro scritto oggi dal bambino di venticinque anni fa.