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 2019  marzo 23 Sabato calendario

La moda dei ravioli cinesi

L’ultima passione degli italiani sono i ravioli. Cinesi. I motivi? Beh, probabilmente perché sono buoni. E poi perché forse il raviolo è una varietà di pasta che ci è molto familiare per tradizione e quindi può convincere anche i più timorosi a incontrarne le nuove versioni. Così mentre il leader Xi Jinping cena al Quirinale con un menu italiano, le nostre città si scoprono sempre più innamorate dell’ Oriente. È un vero e proprio boom di locali monoprodotto mentre anche i ristoranti più raffinati allargano la sezione dedicata ai ravioli. Il primo locale a lanciare la tendenza è stato la Ravioleria Sarpi di Milano, forte anche del radicamento nella più antica comunità cinese in Italia che data 1920. Coda a tutte lo ore davanti alla vetrina, il proprietario Agie Zhou ha le idee molto chiare: «Non ho aperto un locale cercando di stare dietro ai gusti del pubblico italiano perché tanti hanno già fatto tentativi simili proponendo magari una versione adattata. Io invece volevo proporre al pubblico un piatto della tradizione culturale cinese fatto proprio come in Cina e ho pensato che il raviolo potesse essere l’esempio ideale. Le materie prime che usiamo però sono tutte italiane, in primis la carne della vicina e storica macelleria Sirtori». Non a caso è stato menzionato da Gambero Rosso come miglior locale lombardo di street food del 2017. «Abbiamo cominciato l’attività della Ravioleria Sarpi nel dicembre del 2015 – continua Zhou, – ma ci pensavo da moltissimo tempo, addirittura dagli anni ’90. Io sono cinese dello Zhejiang, una provincia orientale della Cina da cui provengono molti dei cinesi che risiedono in Italia ma ormai sono qui da quasi trent’anni».
Il nome generico del raviolo cinese è jiaozi ( si pronuncia senza la i finale) due ideogrammi che hanno molteplici significati: in origine il termine identificava una moneta a forma di lingotto d’oro. Da lì la tradizione di mangiarli all’inizio del nuovo anno. Un altro antico significato era” dormire insieme e avere dei figli”. Entrambi insomma rinviavano a fortuna e prosperità. Dalla Cina la tradizione culinaria passa al Giappone dove gli stessi ideogrammi si pronunciano gyoza secondo la lettura on’yomi ovvero il modo in cui i giapponesi pronunciavano il termine cinese originale. In coreano diventano gyoja e così via con poche differenze dal Vietnam alla Mongolia. L’origine però è indubbiamente cinese. Così come per il dim sum che però «non è un tipo di raviolo – avverte Zhou – ma una tradizione culinaria cantonese che consiste in assaggi di tanti piccoli piatti, un po’ come le tapas spagnole. Tra questi ci sono i ravioli ma non solo. Molti ristoranti cinesi per semplificare usano dim sum per indicare una selezione di ravioli, ma non è corretto». E che differenza c’è tra i jiaozi e i gyoza giapponesi? «Nessuna. Il raviolo giapponese però di solito è solamente quello grigliato mentre nella tradizione cinese la cottura può essere al vapore, con acqua, brasata o appunto grigliata». Lo conferma anche Ryhoei Hamazawa «ma gli italiani mi chiamano Leo», fondatore a Roma di Leo’s Gyoza Factory, appena inaugurato in zona Ostiense, con altri due soci: «Noi proponiamo più di 30 tipi diversi di ravioli della tradizione giapponese, compresi quelli dolci. La differenza con quelli cinesi? I nostri hanno la crosta più bruciacchiata e sono più croccanti». Ma il raviolo è davvero ovunque: sempre a Roma, il raffinatissimo Green- T può offrirne decine di tipi: «Il Cha Shao Su è un prodotto di autentica pasticceria – spiega il titolare Giacomo Rech – in cui si cerca il qi, l’armonia degli opposti, per cui nessun piatto è tutto dolce o tutto salato». Anche se, dice Zhou «la storia del raviolo per me è molto bella perché era il piatto di chi aveva difficoltà finanziarie: quando non c’era niente da mangiare la famiglia si riuniva intorno a questo piatto povero, ma gustoso ed era festa! E questo è proprio uno dei motivi per cui ho voluto proporre questo piatto». E festa sia.